Fini sfida la Lega sulla cittadinanza e il Pdl si divide

RomaNo, non è un guanto di sfida. No, la guerra non continua con altri mezzi. «Però la politica è dialettica, è confronto anche duro, e mica ci possiamo fermare perché la Lega non vuole... ». Senza contare, confida l’onorevole Fabio Granata, da tempo conclamato alfiere «finiano» alla Camera, che «mediaticamente la presentazione è andata benissimo».
Il coordinatore La Russa aveva «sconsigliato», il vicecapogruppo Cicchitto bollerà l’iniziativa come un pericolosissimo tentativo di rottura del patto con la Lega («per noi fa testo il programma elettorale e la pdl dell’onorevole Santelli»). Però l’inutile ma significativa presentazione della proposta di legge sulla cittadinanza gremisce la sala del Mappamondo a Montecitorio, dove viene convocata persino la nazionale italiana under 15 di cricket, campione d’Europa «alla faccia di Bossi» (come dichiarato dal suo presidente Simone Gambino, perché composta per la maggior parte da ragazzini figli di immigrati, pakistani e indiani). Una conferenza stampa che fin dal titolo («Fratelli d’Italia») mostra un delicato tiè ai colleghi in fazzoletto verde padano. E in prima fila, assieme al finiano Granata, quasi tutti i politici transgender (sia detto senza offesa) firmatari della proposta che dimezzerebbe tempi e modi per ottenere la cittadinanza. Dal co-primofirmatario del Pd Andrea Sarubbi (Azione cattolica) all’immarcescibile Furio Colombo, da Paola Concia alle vedove D’Antona e Calipari, all’udc Pierluigi Mantini, al dipietrista Giuseppe Giulietti. Firme al gran completo per i fedelissimi di Fini: Luca Barbareschi e Donato La Morte; Antonino Lo Presti e Gennaro Malgieri; Silvano Moffa e Mirko Tremaglia (che fa capolino verso la fine); Flavia Perina e Benedetto Della Vedova; Gregorio Fontana e Alessandra Mussolini (tornata fan di Gianfranco). Tutti per uno, e per quello che resta il cavallo di battaglia di Fini: cioè «guardare avanti, all’Italia del futuro», pensare alla «two generation» degli immigrati, concedere loro in maniera rapida e concreta l’occasione di un’integrazione piena. Diritto di voto incluso, essendo esso uno dei principali benefit connessi allo status della cittadinanza.
Uno strappo completo alla logica declamata da Cicchitto come indispensabile per «mantenere compatta la maggioranza» e non «rovesciarla su un tema così delicato». E dunque «ius soli», piuttosto che lo «ius sanguinis» invocato dalla Lega e dalla Santelli. Ovvero, secondo la proposta di Granata-Sarubbi, diventa cittadino chi risiede stabilmente in Italia. Se maggiorenne, giurando sulla Costituzione dopo cinque anni di residenza e il superamento di un test di integrazione civica e linguistica (che si può ripetere un numero illimitato di volte). Oppure, dopo due anni di matrimonio con un italiano. Per i minori, invece, la cittadinanza è attribuita se si nasce in Italia da genitore legalmente soggiornante da almeno cinque anni, oppure se si è completato con successo un ciclo di studi (indipendentemente da luogo di nascita e dai genitori).
Una rivoluzione, considerando i tempi (lunghi e incerti) nonché la burocraticità delle attuali norme. Nel suo piccolo, però anche il segnale di un rivolgimento all’interno del gruppo parlamentare del Pdl e della maggioranza di centrodestra. «Abbiamo chiesto le firme ai leghisti - spiegherà Granata -, purtroppo ci siamo accorti che la loro contrarietà era pregiudiziale. Però vogliamo insistere nella ricerca di un dialogo». Non c’è rottura del patto di governo, insiste il rompighiaccio finiano, «perché, come il presidente Fini ha fatto bene a sottolineare, il Parlamento ha la sua dignità e le leggi si possono fare pure non su iniziativa del governo. Anche se qualcuno lo dimentica». E se la Lega s’impunta? «Non è affar mio il rapporto tra Lega e Pdl, noi andremo avanti lo stesso».

Con quali numeri, al di là delle cinquanta firme? «Dentro il Pdl contiamo da un minimo di 50 voti a un massimo di 150 - calcola Granata -, a seconda delle minacce, pardon, delle pressioni che i deputati potrebbero ricevere durante l’iter». Sommati ai voti delle opposizioni, una nuova maggioranza dirompente, un po’ meno «modello Kadima» un po’ più modello «Grosse Koalition».

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