Per fortuna c'è Krug Nome proprio di Champagne

Fondata nel 1843 da un immigrato tedesco, da oltre 170 anni ricerca l'eccellenza assoluta delle bollicine Grazie a «vins de réserve» inimitabili

di Andrea Cuomo

E poi c'è Krug. Nome proprio di Champagne. Maison leggendaria dal nome tedesco perché fondata da un «crucco», Johann Joseph Krug, che dapprima rubò il mestiere da Jacquesson - e buttalo via - e poi, nel 1843, decise di mettersi in proprio. Le ambizioni erano alte, ma forse nemmeno JJK avrebbe immaginato che il suo onomatopeico cognome sarebbe stato in seguito associato a ciò che per molti - cuius ego - è quanto di meglio tra tutte le cose a cui possa accadere di finire dentro un calice.

Che cosa rende davvero unica Krug? Arriviamoci passo passo partendo dai fatti. Krug, per dire, è la prima e unica maison ad avere prodotto, ogni santa vendemmia nella sua storia, soltanto Champagne de Prestige, vale a dire la massima espressione di quella Bengodi del vino che è la terra a Nord-Est della Francia, che Bacco ce la custodisca intatta. Insomma, dalle parti della grande K il concetto di Champagne «base» è sconosciuto. La sua Grand Cuvée, il vino che proietta sullo schermo bianco del nostro palato nel modo più nitido la visione di JJK e dei suoi eredi, è un assemblaggio di cinquanta vini di una decina di annate differenti, a creare una complessità inenarrabile. I suoi vins de réserve sono leggenda nella leggenda e la maison non li risparmia: Krug è l'unica a utilizzare fino al 50 per cento di essi nelle cuvée. Sarebbe come avere cinque Messi in una squadra. E poi c'è il fattore famiglia: da diciassette decenni c'è una persona che di cognome fa Krug a occuparsi da vicino delle cuvée, e anche oggi che la maison fa parte della scuderia del lusso LVMH (Louis Vuitton Möet Hennessy), la maison resta un affare di famiglia, approfittando di una totale autonomia dal valore identitario.

Un viaggio nelle terre di Krug, tra il Clos du Mesnil, il Clos d'Ambonnay, eppoi nella spettacolare cantina di Reims che durante la prima guerra mondiale servì di rifugio ai dipendenti e a tutti i cittadini di Reims durante i bombardamenti (che magnifica drammatica immagine le donne che sferruzzano con il rombo e i tremori delle granate in sottofondo accanto alle pupitre con le bottiglie di Krug a testa in giù: vita-morte-attesa e un sacco di altre cose) ti fa sentire come Alice nel Paese delle meraviglie. Chi scrive ha avuto l'immeritata fortuna di essere l'unica Alice italiana, una decina di giorni fa, a partecipare al Krug World Festival. Dove si scopre la bellezza dei luoghi. Dove si beve come se non ci fosse un domani (a proposito: c'è stato). Dove si indossa una parannanza color porpora Krug e si cucinano piatti a base di uova con lo chef belga stellato Sang Hoon Degeimbre. Dove si cena seduti tra Oliver Krug e lo chef de cave Eric Lebel e il pane ha una K fatta con i semi di papavero (la cura del dettaglio qui è elevata a regola di vita). Dove si ascolta il cantautore Ozark Henry fare musica (ottima) da abbinare agli Champagne: sembra un giochino e forse lo è, ma intanto cambia un po' la percezione della musica stessa e del vino (nel progetto sono stati coinvolti molti musicisti Krug's lovers: Gregory Porter, Cecilia Chailly, Jacky Terrasson, altri).

Dove si scopre che ogni etichetta ha un Krug-id, un codice di sei cifre che, digitato online, racconta vita morte e soprattutto miracoli di quella bottiglia. Dove si capisce, soprattutto, che l'eccellenza assoluta è una scelta ma ancora di più un destino. Beato chi lo nacque, come direbbe Totò. Ma beato anche chi ne sorseggia i frutti.

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