La forza dell'America è che effettivamente «la legge è uguale per tutti»: quell'imperativo che a casa nostra è solo una scritta dimenticata sulle mura dei tribunali. La forza dell'America è anche di riconoscere i propri errori e di saperli correggere quando infrangono i diritti individuali, fortemente tutelati dall'antica Costituzione settecentesca. Ecco alcune riflessioni che mi sono venute in mente di fronte a recenti episodi di cronaca, forse marginali ma che assumono un valore simbolico se messi a confronto con le consuetudini europee.
Il primo caso riguarda il confronto tra episodi che hanno avuto come protagonisti rampolli di lignaggio pubblico. A Parigi qualche giorno fa il figlio del premier francese Dominique de Villepin, Arthur Galouzeau de Villepin, giovane di 17 anni il cui nome indica già il rango sociale oltre che la nota discendenza, è stato coinvolto in una furiosa rissa. Di fronte a tanto fracasso, i vicini di quartiere hanno chiamato la polizia che, subito accorsa, si apprestava a tradurre i protagonisti al commissariato. Ma il giovane de Villepin chiamava al cellulare il suo augusto padre e passava la telefonata all'ignaro flic che, in tal modo, si trovava a comunicare con il primo ministro. Morale della favola: tutto è stato «messo a tacere», come si dice in gergo poliziesco.
Altro Paese, altra rissa giovanile, altra conclusione. La scena, questa volta, è Austin, la capitale del Texas, uno degli Stati più rozzi e violenti, secondo la vulgata internazionale. Il protagonista di quest'altra pubblica intemperanza è John Ellis Bush, 21 anni, figlio del governatore della Florida Jeb Bush e nipote del Presidente. Quando il giovane Bush ubriaco, forse drogato, è fermato dalla polizia, con l'arroganza dei figli dei potenti oppone resistenza tentando di farsi scudo della duplice parentela. Ma la polizia, insensibile a tanto nome, ammanetta l'illustre rampollo e lo conduce in prigione dove è trattenuto fin quando viene pagata una cauzione di 2500 dollari che consente la rimessa in libertà ma non evita il normale processo per i reati commessi.
La seconda notizia interessante riguarda la rivista ufficiale del celebre collegio di guerra della Pennsylvania dell'esercito statunitense, Parameters, indirizzata ai più alti gradi della gerarchia militare, che nei giorni scorsi ha pubblicato una dura critica alla prigione di Guantanamo Bay, utilizzata dall'Amministrazione Bush per detenere i presunti terroristi al di fuori delle regole non solo delle normali carceri su territorio americano ma anche delle convenzioni internazionali sui prigionieri di guerra.
Le condizioni di vita dei detenuti, le modalità degli interrogatori, lo svolgimento dei processi militari e i diritti della difesa praticati a Guantanamo sono da tempo fortemente criticati dall'opinione pubblica perché ritenuti estranei alla tradizione americana. Le molte critiche sulla stampa hanno messo in evidenza come la legislazione straordinaria approvata dopo l'11 settembre (Patriot Act), nonostante la situazione d'emergenza, non potesse travolgere l'habeas corpus costituzionale e le regole internazionali sui prigionieri di guerra. La stessa Corte suprema di Washington ha riconosciuto nel giugno del 2004 il diritto al giusto processo di due cittadini, uno americano e l'altro di Paese islamico, entrambi catturati tra i terroristi in Afghanistan, e detenuti a Guantanamo con lo statuto di «combattente nemico» e «combattente irregolare».
Ecco: questi diversi episodi mettono in risalto come negli Stati Uniti siano tenuti in gran conto i diritti individuali e l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, valori che non sono solo iscritti nelle dichiarazioni ma rappresentano la prassi normale che non è oscurata dal piccolo come dal grande potere.
m.teodori@agora.it
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