Le frasi matte dell’«altro» Bartezzaghi «In redazione ho sentito urla beduine»

Figlio del grande Pietro, che per anni ha occupato la pagina 41 della «Settimana Enigmistica», semiologo, studia «l’allegria delle parole». Ha appena pubblicato il libro «Non ne ho la più squallida idea»

Sembrava che di Bartezzaghi, a questo mondo, potesse essercene uno solo, il Bartezzaghi con l’articolo determinativo incorporato che per decenni ha occupato con le sue Parole crociate a schema libero la pagina 41 della Settimana Enigmistica diretta dal «Cavaliere del Lavoro Gr. Uff. Dott. Ing. Giorgio Sisini Conte di Sant’Andrea», diventando, e restando anche dopo morto, sinonimo di cruciverba irrisolvibile.
Invece eccone qui un altro che si diverte con le parole ma senza far ammattire il suo pubblico. Uno specialista in anagrammi: mischiando le lettere del nome e cognome ha trasformato Rocco Buttiglione in «un clerico bigotto» e Lucia Mondella dei Promessi sposi in «lucida monella». Uno specialista in definizioni: mascarpone, formaggio fermentato nelle calzature degli alpini; Voltaire, unità di misura dell’Illuminismo. Uno specialista in titoli: rivalità fra attori, Lupi della ribalta; vendite di fine stagione, A qualcuno piace saldo. Uno specialista in criptografie mnemoniche: cucchiaino, mezzo minuto di raccoglimento. Uno specialista soprattutto in frasi matte tratte dalla vita quotidiana, tutte realmente pronunciate o scritte: le più esilaranti («se il sintomo persiste, insultare il medico»; «è stata la goccia che ha fatto traboccare il water»; «tutti i nodi vengono a galla»; «che brutto taglio di capelli! sembri l’ultimo dei caimani»; «sono stanca di essere lo zibellino di tutti»; «non ti curar di lor, ma guarda i passeri»; «prima di tutto, voglio fare una postilla»; «Hitler poche ore prima di morire si suicidò»; «non è tutto oro quello che cola»; «di questo passo arriveremo alle candele greche») le ha appena raccolte in un libro dal titolo programmatico, Non ne ho la più squallida idea, edito da Mondadori.
Del primo Bartezzaghi, che all’anagrafe faceva Pietro ma per tutti era Piero, questo Bartezzaghi è il figlio. Si chiama Stefano, è nato a Milano nel 1962. Semiologo, esperto di linguaggio e di giochi, studia «l’allegria delle parole». S’è laureato col professor Umberto Eco a Bologna (110 e lode), ha insegnato all’Università di Bergamo («ma ho capito che per fare il docente ci vuole o una grande dedizione o un grande pelo sullo stomaco»), ha curato quasi 200 puntate di varie trasmissioni a Radiodue e Radiotre, ha scritto una mezza dozzina di libri, ha collaborato con L’Europeo e con l’inserto Tuttolibri della Stampa prima di passare alla Repubblica.
Stefano Bartezzaghi ha imparato a leggere a quattro anni sulla Settimana Enigmistica. «Univo i numerini della Pista cifrata, e intanto raccoglievo le figurine Panini: tifavo per il grande Cagliari di Gigi Riva. Papà cominciò a darmi 100 lire di mancia per ogni cruciverba risolto. Fu un incentivo a sperimentare giochi nuovi, sempre più difficili». La sfida tra padre e figlio s’interruppe presto. A soli 56 anni, Pietro Bartezzaghi fu colpito da una terribile nemesi: «Un tumore al cervello, la malattia che temeva di più. Ci parlava sempre di una sua lettrice che, volendo capire se l’intervento chirurgico per un male analogo era riuscito, appena risvegliatasi dall’anestesia generale aveva chiesto ai medici: “Fatemi risolvere un Bartezzaghi”. Papà ha vissuto col terrore di perdere le proprie facoltà mentali. Per fortuna ha continuato a lavorare ai suoi cruciverba fino a due ore prima di morire. C’è del vero nello slogan “Il passatempo più sano ed economico” coniato dal suo settimanale. Non ho mai conosciuto un enigmista rincoglionito».
Che tipo era suo padre?
«Era nato a Vittuone, Bassa lombarda, nel 1933, in una famiglia dialettofona. Mio nonno era idraulico del Comune di Milano. In casa non avevano né libri né giornali. Eppure a 13 anni papà spedì il suo primo cruciverba alla Domenica del Corriere e gli fu subito pubblicato. A 15 esordì sulla Settimana Enigmistica, che nel ’60, dopo 12 anni di collaborazione, gli propose l’assunzione in pianta stabile. Lui era perito chimico alla Montecatini, dove avevano appena inventato il Moplen. Si trattava di lasciare un posto arcisicuro per la redazione di un giornaletto. Non ci dormì per qualche notte, poi accettò. Era un talento sorgivo».
Sgorgato da dove?
«Glielo chiedevamo anche noi, ma mica ci rispondeva. Diceva che s’era formato sulle edizioni tascabili, che aveva preso in prestito i libri dalle biblioteche ambulanti. In realtà aveva la forma mentis del cruciverba. Tipico dei chimici. Primo Levi sosteneva che la tavola periodica degli elementi di Mendeleev è un cruciverba fatto dalla natura. E anche l’autore di Se questo è un uomo, al quale ho dedicato uno studio, era un chimico appassionato di enigmistica. Un suo racconto ha per protagonista un personaggio che costruisce palindromi (parole, come onorarono e ossesso, o frasi che si possono leggere sia da sinistra verso destra che da destra verso sinistra, dal greco palindromos, “che corre indietro”, ndr). Il motto preferito da Levi era “in arts it is repose to life”, espressione inglese che letta da destra a sinistra diventa l’italiano “è filo teso per siti strani”».
Chiedeva a suo padre che mestiere facesse?
«Sì, così come le mie figlie di 15 e 11 anni oggi lo chiedono a me. E mio padre rispondeva: “Impiegato”. Non si viveva come autore. La Settimana era una bottega artigianale. Lo è ancora. Ricordo che prima di Natale tutta la famiglia partiva dalla Bovisa per andare in redazione a fare gli auguri al direttore Giorgio Sisini, un burbero di grande carisma. Lì a Palazzo Vittoria, in piazza Cinque Giornate, papà ha timbrato per anni il cartellino, prodotto lavori di altissima qualità, controllato con scrupolo maniacale le bozze. Un errore sarebbe stato una rottura del gioco».
Quanto c’impiegava a compilare il cruciverba di pagina 41?
«Da mezza giornata a un giorno e mezzo. È morto a ottobre e ha lasciato scorte per la pubblicazione fino all’agosto successivo».
Compulsava molti testi?
«Solo per verificare l’ortografia. Era pignolissimo. Per il resto lo assisteva la memoria prodigiosa. Ricordo che per i 75 anni del cruciverba dovevo scrivere un articolo per La Stampa. Mi piacerebbe cominciarlo con una definizione di 75, gli dissi. E lui: “Eh, i numeri sono difficili. Prova questa: gli anni che ha vissuto Garibaldi”. Corsi a verificare sull’enciclopedia: nato nel 1807, morto nel 1882. Era il primo a rendersi conto che spesso i cruciverbisti non sanno leggere le definizioni. Le interpretano in modo suggestivo. La definizione è un esercizio di pertinenza».
Perché lei non lavora alla Settimana Enigmistica?
«Nelle famiglie feudali il primogenito, in questo caso mio fratello Alessandro, eredita il posto del padre. Il secondogenito diventa cavaliere e va all’avventura: eccomi qua, enigmista eterodosso che non aderisce alle regole e si diverte a svariare. Il terzogenito sceglie la carriera ecclesiastica, e infatti Paolo ha abbracciato il giornalismo, che è una religione, e fa il redattore alla Gazzetta dello Sport. Mio fratello maggiore ha siglato per anni i suoi cruciverba semplicemente Alessandro. Poi ha avuto l’onore della firma abbreviata, A. Bartezzaghi, così come nostro padre era stato P. Bartezzaghi».
Che cosa sono per lei le parole? Una sfida intellettuale? Un modo per mantenere la famiglia? Una dannazione?
«Un gioco. Le parole non stanno mai ferme».
Ma oggi su Internet ci sono i motori di ricerca anche per gli anagrammi.
«Un podista non va in motorino. Io uso ancora le lettere in legno dello Scarabeo. Il computer può fare combinazioni di lettere, ma non sa scegliere. E poi i motori per anagrammi riconoscono solo i lemmi del dizionario, non tengono conto dello scibile umano».
Ha proposto la riscoperta dell’onomanzia, cioè dei giochi finalizzati a definire il carattere di una persona attraverso le lettere del suo nome e cognome.
«Ho cercato a lungo di trovare un anagramma convincente per Maurizio Costanzo. Un lettore mi ha battuto: “sorcio umanizzato”».
Com’è nato Non ne ho la più squallida idea?
«Dalle e-mail che mi mandano i lettori. Una segnalazione diceva: “Svegliamo l’arcano”. Un errore ortografico che conteneva un programma di lavoro. Lo spunto per scrivere il libro me l’ha fornito Valentina, la quale ha un’amica abitante a Milano che, a dispetto del nome Benedetta, dal latino bene dicere, possiede un istinto naturale per le frasi matte. Anziché “verde bottiglia” dice “verde bocca”. Oppure “è una ragazza tutta acqua e ombra”, “ha fatto passi da leone”, “un insetto con le teglie”».
Ormai ogni categoria – farmacisti, medici, assicuratori, insegnanti – ha il suo stupidario.
«Il mio non lo è. Lo stupidario è finalizzato al dileggio. Mi mette malinconia fin dal nome, coniato da Mussolini per le veline del Minculpop che deridevano i nemici dell’Italia durante la guerra. Lo stupidario postula un rapporto gerarchico: il dottore che prende in giro il malato. Questo libro, invece, nasce dall’autodenuncia».
Teme di più gli stupidi o i cattivi?
«Il cattivo fa paura. La stupidità è più distribuita. Non temo lo stupido in sé, temo lo stupido in me».
Nel libro cita «ho sentito urla beduine», la prima di una serie di frasi «ascoltate in diverse redazioni giornalistiche da un collezionista che chiameremo il Redattore».
«Nelle redazioni accade di tutto. Ho visto un servizio su Jarno Trulli, pilota di Formula 1, corredato con una foto dei trulli di Alberobello».
Dalla conoscenza che ne ha, i giornalisti sono così ignoranti come spesso appaiono o persino peggio?
«Alle nuove leve manca la scuola. Alla Stampa io ho avuto la fortuna d’avere per maestro Giorgio Calcagno, un fine letterato che due volte la settimana mi teneva al telefono da un quarto d’ora a un’ora e un quarto facendo le pulci ai miei pezzi».
Chi è la persona più intelligente che ha conosciuto in vita sua?
«Bella lotta. Decisivo è stato l’incontro con Umberto Eco. Avevo frequentato malamente il liceo scientifico. Siccome amo il jazz, m’ero iscritto al Dams di Bologna convinto di fare un po’ di musica. Eco mi ha trasmesso una grandissima voglia di studiare. Alla prima lezione ci ha detto: “Il pezzo di carta ve lo diamo lo stesso. Ma se v’interessa approfondire, sappiate che qui c’è tanto da imparare”. Anni dopo ero con lui al Collège de France di Parigi, dove teneva una conferenza sulla cabala cristiana. Alla fine siamo andati a bere qualcosa con Alain Elkann. Mentre entriamo nel bar, Elkann gli fa: “Ma lo sai, Umberto, che in quello che dici ci sono tante cose da imparare?”. Voleva essere un complimento».
Com’è possibile che l’enigmistica sia tanto apprezzata in una nazione dove la maggioranza traduce i propri pensieri dal dialetto e va in crisi all’idea di dover spedire un telegramma?
«L’italiano è una lingua scritta. Prima della grande unificazione nazionale propiziata dalla televisione, era la lingua della scuola, della burocrazia. Tutti parlavano quello che Carlo Emilio Gadda chiamava “un italiano raggiunto dal dialetto”. Per i nuovi alfabetizzati l’enigmistica ha rappresentato il gioco, l’occasione per mettere in campo una competenza che altrimenti sarebbe rimasta un po’ sospesa».
Dell’italiano dei politici che cosa pensa?
«La politica è ormai ridotta a uno spettacolo di fuochi d’artificio verbali. Il deterioramento della comunicazione istituzionale è sotto gli occhi di tutti. Ma non rimpiango le fumoserie di un Mino Martinazzoli, grande lettore di Cioran, il cui eloquio nulla concedeva all’esplicazione del pensiero».
Preferiva Giulio Andreotti?
«Certe dichiarazioni del senatore a vita passavano per spiritose anche quando non lo erano affatto».
Antonio Di Pietro?
«Un Bertoldo. Ricordo d’averlo visto nel programma tv Un giorno in pretura nel ruolo di pubblico ministero di un processo per omicidio. Fece una rappresentazione del delitto come se fosse il giudizio universale visto da Achille Beltrame sulla copertina della Domenica del Corriere».
Massimo D’Alema?
«Quando di Prodi e Veltroni dava la definizione “i due flaccidi imbroglioni di Palazzo Chigi”, poi smentita, metteva paura. Ma almeno dimostrava una sua icasticità».
Lei è imbattibile anche nella raccolta di istruzioni per l’uso cervellotiche: dai bugiardini dei medicinali alle insegne.
«Sì. Sul foglietto illustrativo del Bactrim, sulfamidico: può provocare il decesso. Sulla scatola del ferro da stiro Rowenta: non stirare gli abiti mentre li si indossa. Istruzioni per l’uso su una confezione di noccioline dell’American Airlines: aprite il pacchetto, mangiate le noccioline».
Che contributo ha dato la televisione al diffondersi delle frasi matte?
«Gigantesco. “L’ha detto la Tv” una volta veniva usato come certificato di verità: è vero perché l’ho sentito alla Tv. Ora come certificato di legittimità: lo posso ripetere perché l’ha detto Biscardi».
Salva i telegiornali?
«Vedere i tiggì è come stare in ascensore con un vicino che vuole dire qualcosa anche se non ha niente da dire».
Per Adriano Celentano ha coniato l’anagramma “lo dannino a tacere”.
«Lui è un grandissimo artista, un campione nello spararle grosse. Ha introdotto se stesso in Tv come evento: le teleprediche, lo sforamento, “l’amore è” senza accento, le interpellanze parlamentari... Ha intuito per l’Italia. La sua è stata una funzione anticipatrice e perniciosa. Come re degli ignoranti sarà ignorante ma è anche re».
Chi ha fatto di più per l’italiano negli ultimi 50 anni?
«Giorgio Armani. Oggi nel mondo l’italiano è la lingua dell’economia, come ieri lo era del calcio. Platini ha confessato che quando incontrava Maradona negli Stati Uniti parlava in italiano».
Trovarsi nella classifica dei libri più venduti accanto alle barzellette di Francesco Totti non le provoca disagio?
«Anzi, m’inorgoglisce. Amo il pubblico degli aeroporti e degli autogrill. Le classifiche sono menzognere. Hermann Hesse, l’autore di Siddharta, diceva: “Oltre le 30.000 copie comincia l’equivoco”».
Quale è la frase matta alla quale è più affezionato?
«La deposizione di una testimone raccolta in un tribunale americano. Il giudice la interroga: “È mai andata a letto con quest’uomo a New York?”. “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. “È mai andata a letto con quest’uomo a Chicago?”. “Mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. “È mai andata a letto con quest’uomo a Miami?”. “No”».
A volte non ha la sensazione che tutto sia già stato scritto, detto, ripetuto e quindi di lavorare sul nulla?
«In gergo accademico ha un brutto nome: è il postmoderno. Inventata la cultura di massa, non c’è più niente da inventare. Si possono solo far circolare le idee. La mia generazione è sempre arrivata quando la festa era già finita. Pensi invece a quelli nati negli Anni 30: hanno vissuto la dittatura, la guerra, la fame, poi hanno avuto la libertà, il boom economico, la rivoluzione sessuale, e adesso che sono vecchi si godono le ultime pensioni, perché è chiaro che i soldi per pagare le nostre non si troveranno, e gli hanno pure inventato il Viagra. Più di così!».
A fine giornata ha spesso il mal di testa?
«Emicrania, “micia nera”... No, mai. Però invecchiando mi capita quello che accadeva a mio padre. La sera rincasava dalla Settimana Enigmistica e per 20 minuti non si poteva dirgli assolutamente nulla. Si chiudeva in camera e ascoltava al buio il giornale radio. Era il suo modo per decontrarsi».
«L’ipotesi che tutto sia un bisticcio, / uno scambio di sillabe è la più attendibile.

/ Non per nulla in principio era il Verbo», come poetava Eugenio Montale, è la più probabile anche per lei?
«“In principio era il gioco di parole”, ha scritto Samuel Beckett in Murphy. Montale un po’ esagerava col suo nichilismo. Ma certo il Dna non è altro che un anagramma spiraliforme. Lettere che si ripetono. Lì sotto qualcosa c’è».
(340. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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