A prima vista, pare un ragno. Arroccato alla poltrona, le mani tentacolari, le gambe straordinariamente lunghe. I baffi, c'è da immaginarlo, celano denti al veleno; quanto ai libri, fra i trenta e quarantamila - attualmente conservati presso la Biblioteca Luis Ángel Arango di Bogotá -, sembrano trappole, botole, tane illusorie. Nato nel 1913, nell'alveo di una ricca famiglia colombiana, Nicolás Gómez Dávila nelle fotografie è sempre vecchio. Nel corpo, però, pur allampanato, retrattile, si avverte la tensione dello scatto rimosso, la cruna del pericolo. Da ragazzo fu spedito a Parigi, a studiare da precettori di pregio. La cultura da autodidatta sommata a una grave infezione polmonare perfezionarono un pensiero affilato, da predatore, privo di fratelli, di precedenti. Quando gli scrittori sudamericani non indugiano nel sociale, in un infecondo ribellismo da rivista o da foresta, e non optano per le moine del realismo magico, si avverte, nei loro libri, il gusto per l'illecito, l'aristocrazia degli spazi sconfinati e delle infinità sanguinarie, la belva nella giungla. Il caso di Gómez Dávila è eclatante: visse per lo più da recluso, nella dimora di Bogotá, sfarzosa, nel quartiere Nogal, rifiutando ogni incarico onorifico - compreso il ruolo da ambasciatore a Londra -, dedito a un'opera nottambula, polimorfica, che si sviluppa, appunto, come una tela di ragno. Gli Escolios - scolii, note, glosse «a un testo implicito» - sono cuciture sul corpo di una civiltà morente, marchi a fuoco sul mostro agonizzante della Storia: la limpidezza di Montaigne si coniuga all'arte bizantina, preziosismo che cela condanne a morte.
Il caso fu clamoroso. Gli Escolios, raccolti tra gli anni Settanta e Ottanta per lettori esoterici, furono riscoperti nel nuovo millennio: Franco Volpi ne ha curato, vent'anni fa, per Adelphi, un'edizione di culto, In margine a un testo implicito. Dal 2017 l'opera di Gómez Dávila è tradotta, integralmente, a cura di Loris Pasinato, dalle edizioni Gog. I Textos I - stampati in origine nel 1959 da Editorial Voluntad, a cui non farà seguito alcun altro volume -, appena pubblicati (pagg. 146, euro 15), non sono la parte solare, in chiaro, dell'opera negativa di Gómez Dávila. Non sono il testo implicito intorno a cui il pensatore furibondo, fuori classe, ha arroccato i propri scolii. I Textos sono il pre-testo degli Escolios, gli esercizi preparatori, i primi vagiti di una filosofia radicale, radiosa per rapacità, barbarica. Chi ama il Gómez Dávila reazionario e antidemocratico, ad esempio, vada immediatamente al sesto capitolo, che sbeffeggia «la moderna religione democratica». Secondo Gómez Dávila una stessa tara affligge «gli ideologi del capitalismo» e «l'ideale comunista», entrambi «alfieri della stessa speranza»: «Se il comunismo denuncia la truffa borghese e il capitalismo l'inganno comunista, ambedue sono varianti storiche del principio democratico; ambedue anelano una società in cui l'uomo si ritrovi, alla fine, signore del proprio destino». È proprio il destino del comunismo e del capitalismo, gemelli diversi ed egualmente orribili, che Gómez Dávila combatte: lo Stato-dio, l'uomo divinizzato, la teodicea del progresso («Il progresso è la giustificazione dell'attuale condizione dell'uomo e delle sue ulteriori teofanie»). Tutto esiste perché utile - perfino il bene, «segno di un felice funzionamento biologico o di un atto propizio alla sopravvivenza sociale» - nell'orbita del comunismo capitalista, tutto è dunque insussistente, non sufficiente a se stesso, non in sé, insensato.
Il culto della libertà è un parto mostruoso, un'ovvia menzogna, dacché: «La libertà totale dell'uomo richiede un universo schiavizzato. La sovranità della volontà umana può dirigere solo cadaveri di cose». Non resta, a questi schiavi umani che si credono re, altro che l'idolatria del denaro, specchio della frustrazione democratica: «La venerazione della ricchezza è un fenomeno democratico... Il culto del lavoro, col quale l'uomo adula se stesso, è il motore dell'economia capitalista; e il disdegno della ricchezza ereditaria, dell'autorità tradizionale di un nome, dei doni gratuiti dell'intelligenza o della bellezza, esprime il puritanesimo che condanna, con orgoglio, quello che non si concede allo sforzo dell'uomo». Per noi, invece, è luce la reazione, il blasone delle catacombe, la beatitudine dei reprobi: «Nel nostro tempo la ribellione è reazionaria, oppure non è altro che una farsa facile e ipocrita».
Per certi versi, Gómez Dávila sembrerebbe una creatura scaturita da un racconto di Borges. Quando Borges pubblica i Prólogos, è il 1975, Gómez Dávila non ha ancora raccolto gli Escolios, che usciranno due anni dopo. Eppure, si intuisce l'ombra di Gómez Dávila, quell'odore blu, nel cammeo che Borges dedica a Macedonio Fernández: «In un cortile interno di via Sarandí ci disse una sera che se egli avesse potuto andare in campagna, sdraiarsi per terra a mezzogiorno, chiudere gli occhi e pensare dimenticando tutte le circostanze che ci distraggono, avrebbe potuto risolvere immediatamente l'enigma dell'universo». Tuttavia, in Gómez Dávila, cattolico integrale, è assente la liturgia degli specchi e dei labirinti, il catechismo dello gnostico, l'affettuosa ironia. Nella prima pagina dei Textos - in cui si riconosce il ritmo epigrafico degli Escolios, lirico e assertivo insieme - tutto è chiaro, senza fronzoli, sfrontato: «L'uomo nasce ribelle. La sua natura gli ripugna». E poi: «Vivere non è acquisire, ma abdicare». E poi: «L'animale più miserabile, dedito senza riserve alla sua febbre, occuperebbe tutto lo spazio e divorerebbe le stelle. Nelle pozzanghere delle vie ci sono organismi effimeri che già contengono il possesso virtuale del cielo». Che miracolosa vertigine.
Va detto che il recluso azzannava la vita, il ragno era animato da una foga fugace. «Il mio essere si compie solo nell'erta vetta dell'idea o nella valle bassa e soffocante dell'erotismo», confessa in uno degli scolii.
Da vecchio, preferiva la villa in campagna, sul sorgere della foresta, per ammirare l'intestina lotta degli insetti. Aveva tre figli. In una fotografia, abbraccia la primogenita, Rosa Emilia. Lei è di una bellezza folgorante, gli afferra la giacca e fissa l'obbiettivo; lui ha gli occhi chiusi, sorride. Non pensa a nulla, più a nulla.
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