Gavrilov le suona all'Urss. E ai "rossi" italiani stonati

In "Fira e Andrej" l'amicizia con il collega Richter e l'ostracismo del regime. Per colpa della figlia di Breznev

Nella postrema stagione della Guerra Fredda era facile che all'ultimo momento un artista sovietico non giungesse oltrecortina. Nel 1979 l'onore capitò al pianista Andrej Gavrilov. Ad Ovest fu liquidato con un comunicato molto tedesco: «Herbert von Karajan e l'Orchestra Filarmonica di Berlino hanno atteso per quattro ore il solista, il pianista sovietico Andrej Gavrilov, che non è si è presentato alle prove»; ad Est, forse peggio: un raffazzonato telex sovietico dichiarava che il solista non era partito «causa intensa tournée nel suo paese». Come era possibile che un giovane artista non optasse per concerti a Berlino e incisioni con il più potente e mediatico direttore occidentale? Era un suicidio bell'e buono.

I racconti che lo stesso Gavrilov ha pubblicato (tradotti in una lingua vivissima da Mirco Gallenzi), collegati intorno al filo rosso della sua amicizia con il pianista sovietico n. 1, Sviatoslav Richter, detto Slava o Fira (Fira e Andrej. La mia amicizia con Sviatoslav Richter, Zecchini editore, pagg. 336, euro 43), chiariscono il mistero.

Il lettore troverà altri ritratti non dimenticabili: Ciliegia e Burattino, alias la coppia Galina Vishnevskaya/Mstislav Rostropovic, genio-dissidente del violoncello colla evve moscia che copriva la celebre moglie-soprano di gemme Cartier come una zarina. Il primo impresario finnico Seppo Karlsson che gli infila improvvisamente «la mano tra le gambe mentre si sta lavando i denti in albergo, col dentifricio colante». Per farsi perdonare il fraintendimento «mi presentò diverse tipe, e insieme ad una andammo persino ad una manifestazione in difesa delle balene e mi regalò un'intera valigia di letteratura russa illegale». Il dotatissimo compagno di studi Yurij Egorov, fuggito dall'Urss nel '76 sull'orlo della follia e dell'etilismo e morto suicida nell'88 fra le sofferenze dell'Aids.

Gavrilov aveva vinto nel '74 il campionato del mondo dei pianisti, il concorso Cjaikovskij, che era l'anticamera dell'intoccabilità nella «Sovietlandia», davanti a Myun-Whung Chung, oggi direttore sud coreano di meritata fama, e proprio al predestinato alla vittoria Egorov. Purtroppo Jura commise uno sbaglio («Anima mia (così mi chiamava), te lo immagini Loro suonano in Do minore e io ti sciorino le mie ottave in si bemolle minore e mi viene da ridere, è più forte di me!». «A un meschino narcisista sarebbe venuto un infarto, invece il mio nobile amico rideva»).

La fama succhia Andrej come un vortice: sostituisce Richter a Salisburgo, e questi lo vuole conoscere e comincia un'amicizia insolita, fatta di discussioni, bevute, fumate, concerti in tandem (le famose suite di Händel), depressioni lenite da feste da ballo in stile vecchi possidenti russi e lunghe passeggiate. Vanno alla casa museo del compositore Sergej Taneev a Djut'kovo. Un autore noto in Occidente per il fatto che la moglie di Tolstoj ne era innamorata, e lo scrittore si vendicò scrivendo La sonata a Kreutzer, dove il marito tradito sorprende l'adultera con un violinista e la pugnala. Gita deludente per Slava/Fira, perché alle pareti ci sono i ritratti di tutti tranne Richter. «Gilel's, Cliburn, Oborin, Sofronickij, Vlasenko! Ecco chi era amato in modo spontaneo dal popolo oltre la circonvallazione. E questo quando Richter si trovava all'apice della gloria! Aveva ricevuto tutto ma il popolo amava l'americano Van Cliburn». Perfino l'inserviente non lo aveva riconosciuto o forse aveva finto di non riconoscerlo.

Intanto il Compagno Andrej si esibisce per i gerarchi accanto a stelle della danza e del pop, a comici e circensi. Li dipinge come spettri di Francis Bacon nella festa al Cremlino per i settanta anni del «benevolo zia Lenja», cioè Breznev. «I volti di tutti i dirigenti erano di un colore rivoltante, facce con una brutta pelle, butterata. Denti ingialliti dal fumo, anneriti, spaziati, piccoli chicchi di granturco guasti. I grandi capi indossavano completi confezionati all'estero, adattati alle loro disgraziate figure. Al centro del tavolo spuntava a mo' di pertica, l'ideologo Michail Suslov, simile a un vampiro dalla faccia esangue, cianotica. Accanto ai dirigenti erano sedute le loro mogli. Quasi tutte grasse, buzzurre, sempliciotte. Mi è rimasta impressa l'espressione di avidità delle loro facce turgide di grasso. Gli occhietti porcini».

Nella disgrazia di Gavrilov, «l'orso bonario» Leonid Ilic Breznev, c'entra in pieno. Si scopre che l'ordine restrittivo (che valeva disgrazia totale) veniva dal Primo Segretario del Pcus in persona. La figlia Galina era stata imbeccata dagli suoceri di Gavrilov, un violinista compromesso e una sorta di Lady Macbeth del distretto di Mcensk, come nell'opera di Sostakovic tratta da Leskov. Perché? Storia antica: «Giuseppe e la moglie di Putifarre», precisa Gavrilov.

E racconta di Rajka, la suocera infoiata e da lui respinta: ubriaca, gli confessa di essere stata arrestata per traffico di pietre preziose e incredibilmente liberata poco dopo. I doganieri non si erano nemmeno accorti che aveva nascosto bustine nei guanti! A questo punto il genero casto è pericoloso e deve essere distrutto: visti negati, colloqui surreali, minacce, pedinamenti, misteriosi svenimenti dopo convocazioni e cene al Kgb (mercurio, metalli pesanti e altre schifezze nel sangue; pressione fra 280/150 la prima volta e 310 la seconda).

E vessazioni per riguadagnare la fiducia del sistema, concerti sempre gratis: «trenta recital in Italia organizzati dall'amico partito comunista. Allora non mi passava nella testa che in una normale società democratica, potessero esistere ragazzini e ragazzine che giocavano a fare i rossi, che in generale si occupavano di quella fuffa sotto naftalina che da noi, nel Cicicipì, era confinata alle barzellette o dentro i manuali! Non in Cina, non a Cuba, non nella cattedra di un istituto intitolato a Patrice Lumumba, ma nel centro dell'Europa, nella meravigliosa Italia, trovare imbecilli del genere!». E poi fuggire chiedendo asilo politico a Londra, con tutti i problemi connessi (tentativo di avvelenamento incluso).

Nel chiaroscuro di una prosa avvincente, splendori e miserie di artisti Cicicipì, primo fra tutti Richter, demitizzato con rispetto e lucidità: «il coraggio di Richter nel sopportare il dolore fisico non conosceva limiti. Amava tormentare sé stesso e traeva piacere dal farlo.

Il wagnerismo teutonico, il pragmatismo e la pedanteria in lui si combinavano addirittura al fanatismo settario, alla stravaganza mistica ed altre nevrosi russe, dostoevskiane. Entrambe queste nature convivevano nel suo animo in stato di estrema tensione».

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