Si vive di apparenze, giacché a ben vedere abbiamo in questa vita solo quelle. E a studiarsela nelle foto la ministra Gelmini Mariastella parrebbe perfetto archetipo di professoressa, con nome acconcio. Adatto allo scassato gineceo di laureate in crisi di nervi, che educano alla noia gli studenti con la stessa stanca fretta con cui fanno la spesa. Perché questo è ora in Italia la scuola: luogo dove non solo la cultura massificandosi s’è immiserita; come previsto da Nietzsche. Ma inoltre pure sede di procedura devirilizzante, per esclusiva somministrazione di insegnanti donna. Dalle tre maestre per classe alle schiere di casalinghe traviate nelle medie superiori, dove il livello finale di ignoranza risulta peggiore addirittura di quello europeo. E la Gelmini di questo insistito spreco di anime giovani, per via di massificazione e matriarcato, parrebbe coi suoi occhialini la perfetta incarnazione. Invece ci sorprende: da ministra, sia benedetta, difende i due atti più sani ed eversivi che potevano pensarsi. Dimagrisce in un triennio di 87 mila unità gli, e soprattutto le, insegnanti; proclama la riforma delle scuole in fondazioni. E la direi solo perciò genio virile e pratico.
La scuola di Stato fu un espediente napoleonico, col quale si costrinse l’istruzione ai tornaconti statali. L’istruzione divenne un permesso di Stato, con programma di studio prescritto, che doveva accordarsi ai fini politici. Fosse quella di Bismarck o di Crispi cambiava poco: il sistema doveva creare un’élite utile alla burocrazia prima, e nel Novecento alla massificazione, fino alla decadenza presente, di una cultura la cui misura è solo il denaro, l’economia. Questo l’esito della scuola statale: una società in cui molti, più di prima, leggono libruzzi, ma sono rare e molto desuete le menti originali e libere, anche se tutti si pretendono tali. Oggi del resto la scuola non forma neppur più le élite: asseconda le manie di massa, che l’utile inventa e la tv plasma. Questo il disastro, del quale va preso atto. Concluso da una riforma Berlinguer che ha completato la distruzione ultima di quanto non era stato già guastato dal ’68. La nostra università è ormai l’imitazione di una università americana, ma pensata da un comunista albanese. Insomma tutta la scuola ormai perpetua l’uccisione della morale e del libero pensiero, con la complicità dello Stato. E appunto perché terminerebbe questa pessima complicità, una scuola articolata in fondazioni sovvertirebbe il male, e migliorerebbe tutto.
Infatti una scuola di fondazioni, o un’università, sarebbe una nella quale i sindacati non avrebbero il consenso della politica, come lo hanno avuto per rovinare le elementari o viziare i bidelli. Sarebbe una scuola a cui lo Stato potrebbe conferire parte dei suoi immensi e morti patrimoni da far fruttare, così da limitare le spese correnti. Il conferimento di doni privati permetterebbe in sovrappiù di reclutare docenti migliori, forse anche maschi, e di pagarli meglio sulla base del loro merito. I concorsi statali per insegnanti, come i provveditorati, lande immorali, svanirebbero. Il reclutamento riguarderebbe solo il merito: sarebbe cooptazione dei migliori, senza più Tar. E sarebbe peraltro pure la fine della pessima scuola privata che ci ritroviamo. La fine del valore legale dei titoli di studio renderebbe vani i corsi di recupero. E le scuole esclusive si misurerebbero sul pregio degli insegnanti e degli alunni; non più sul censo. Conterebbe solo il pregio, il che richiederebbe finalmente la fine del libro di testo. Un sogno, nel quale la natura pubblica della scuola sarebbe peraltro garantita da borse di studio per i meritevoli. Gli altri, non nati per studiare, si addestrerebbero ai nobili lavori manuali, così da limitare gli immigrati, nonché l’odierno spreco energetico nelle palestre.
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