Geni umiliati e offesi: i segreti dell’insuccesso

Non basta un grande talento per affermarsi. Pesano il mercato, il potere, i clan, gli “sponsor“. I casi di Lorenzo Lotto, Georges de La Tour, Vermeer ed Emile Bernard

Gli artisti occidentali sono di tanti tipi: belli e famosi (e magari lussuriosi come Raffaello Sanzio, morto a 37 anni - sulla morte di più di un artista proprio in quella precisa età Flavio Caroli ha scritto il libro Trentasette. Il mistero del genio adolescente, Mondadori - per le sue esuberanze sessuali: almeno così dicono gli storici maligni), belli e dannati come Caravaggio, sempre inseguito da questa o quella polizia, famosi solo da morti come Van Gogh. E poi c’è la categoria degli umiliati e offesi: quando il genio non viene riconosciuto in vita e la sua fama s’inabissa per lungo tempo dopo la morte.
Il grande artista ha sempre una personalità spiccata, ma nel suo affermarsi non contano solo le doti individuali. Pesano il mercato, il potere e dunque anche le scuole, i clan, le scuderie dei mercanti. Nel Rinascimento contavano i principi, le confraternite, i papi e i cardinali. Poi il mercato divenne sempre più centrale: ma, anche in questo caso, non mancarono (e non mancano) gli uomini che questo mercato condizionano: i patron delle gallerie, i critici. Se non c’erano più i Ludovico il Moro, non sono mancati fino quasi ai nostri giorni i Giuseppe Stalin che, con artisti per la pace e altre associazioni, influenzavano i valori dei singoli pittori. Insomma, non sempre la qualità è in grado di affermarsi da sola.
Caroli, ordinario di Storia dell’arte moderna al Politecnico di Milano, dice: «La questione misteriosa e affascinante su cui riflettere è proprio questa: il meccanismo del successo di un artista. E anche quello dell’insuccesso: per esempio perché alcuni artisti di qualità eccezionale, improvvisamente scompaiano dalla scena senza lasciare quasi traccia. Prendiamo un caso a cui ho dedicato lunghi studi sin dagli anni Settanta: quello di Lorenzo Lotto. Il pittore veneziano era della generazione del 1480, quella che “ha fatto” il Rinascimento. Nel 1500, da ventenne, Lotto nella città lagunare, allora all’apice del suo splendore, era considerato con Giorgione, uno dei due grandi talenti emergenti in una panorama dominato dal “vecchio” Giovanni Bellini. Giorgione, legato agli ambienti aristocratici veneziani, fece la sua strada. Lotto invece, a un certo punto se ne andò a Treviso, allora dominata dal vescovo De Rossi: un centro urbano di grande qualità, dove si viveva benissimo. Ma niente di paragonabile con la Serenissima che stava diventando la capitale del mondo, la scena più importante per un artista.
«Perché il giovane veneziano se ne andò? Perché lo impaurì la concorrenza di un altro pittore che allora stava affermandosi, Sebastiano del Piombo. Un timore infondato: da lì a qualche anno Sebastiano se ne sarebbe andato a Roma e si sarebbe inserito nell’entourage di Michelangelo. Ma intanto la paura, cattiva consigliera, aveva spinto Lotto a lasciare Venezia e a girare per l’Italia - passò anche da Roma - senza mai radicarsi. E soprattutto facendosi così escludere dai circoli della Serenissima che contavano. Mentre Lotto girava per lo Stivale (a un certo punto si stabilì a Bergamo), nella città di San Marco era arrivato il cadorino Tiziano, con le sue qualità geniali e la voglia di emergere di un provinciale. Il Vecellio non era solo un grande artista, era un dittatore. Formò un vero e proprio establishment in cui contavano lui, quel mirabile architetto che fu Sansovino e quel teppista di Pietro Aretino. Un tipaccio violento, quest’ultimo, capace, con la parola e il verso, di mobilitare l’opinione pubblica. E assai spregiudicato nell’usare il suo potere. Si sono rintracciate le sue lettere al duca di Mantova in cui chiedeva una montagna di soldi per “non” scrivere un sonetto su di lui.
«A un certo punto Lotto decise di tornare nella sua città, ma ormai era troppo tardi, andò a vivere in un quartiere popolare, in una camera affittata che condivideva con uno spadaccino. E intanto Tiziano viveva in una sorta di reggia. Il povero pittore fece opere mirabili come la Pala del Carmine, ma i critici della corte tizianesca lo stroncavano. “Cattive tinte” scrisse della Pala uno di questi, il Dolce. Tiziano naturalmente si rendeva conto del valore di Lotto e lo faceva sorvegliare e punzecchiare continuamente per destabilizzarlo. Quando il Vecellio si trovava ad Augusta a ritrarre Carlo V, l’Aretino scrisse al Lotto: “Oh, caro Lotto come la bontà, buono... Lo essere superato nel mestiere del dipingere non si agguaglia punto all’essere il primo nell’offizio della religione”. Insomma: sei mediocre, ma pio.
«Dalla sua, Lotto in quel librone che sono le sue memorie, non una volta cita il Tiziano, il persecutore. Ma ormai il destino dell’umiliato era sempre più tragico. Sorsero questioni anche di rapporto con la Chiesa: è in qualche modo accusato di relazioni, se non con i protestanti con posizioni di frontiera. Da questa accusa si difende così: “Perché io sono di fede e religion cristiana e chi s’ingana, suo dano”, scrive. Ma alla fine scappa. Va nelle Marche, non ha più soldi, tenta di realizzare qualcosa vendendo le sue opere ma raccoglie somme infime. È disperato, scrive nel suo testamento: “Poiché il sono inquieto de la mente, per non involvermi più in mia vecchiaia” dona se stesso e le sue (svalutate) opere alla Sacra Casa di Loreto, dove dipingerà ancora alcuni capolavori dai colori particolarmente inceneriti e dove troverà la morte da fraticello disegnando dei candelabri. Tiziano lo aveva distrutto: certo la sfida era stata anche sulla creatività. E la perfezione dell’arte tonale tizianesca, la sua capacità di passare sinfonicamente da un colore all’altro con un’armonia inarrivabile, segnerà l’arte nei secoli seguenti. Ma la qualità analitica e l’introspezione lottesca sono di una modernità impressionante e parlano direttamente al gusto contemporaneo. Alla fine non fu solo la qualità artistica a far prevalere Tiziano quanto il suo sistema di potere, peraltro anche questo di grande attualità se si considera il rapporto tra influenza artistica, centralità degli architetti e influenza della calunnia come elementi delle dittature culturali in atto anche oggi in Italia».
Insomma Lotto perse innanzi tutto una lotta per il potere. «Quando scappò da Venezia segnò il suo destino e restò relativamente oscurato per secoli. E non è una storia singola. Si consideri il caso di Georges de La Tour, un grandissimo in pittura e uno dei sei più importanti nel Seicento con Caravaggio, Rembrandt, Rubens, Velázquez e Vermeer. In vita doveva godere di una certa rinomanza, un suo quadro era appeso nella stanza da letto di Luigi XIII. Poi sparì completamente. Certo doveva essere un bell’arrogante, aveva sposato una donna ricca, litigava con i compaesani, prendeva a pedate nel sedere gli ispettori del fisco, nascondeva il grano nei periodi di carestia e il suo levriero infastidiva i vicini. I particolari che conosciamo della sua esistenza non sono certamente raccomandabili. Eppure le sue opere sono grandi. Ma nonostante questo, a un certo punto scompare la memoria stessa delle sue opere. Il fattore decisivo è che il La Tour veniva ed era rimasto in provincia, nella Lorena, nel sud della Francia. E se non eri sulla piazza parigina potevi improvvisamente scomparire: così successe al nostro. Che sarà riscoperto solo qualche secolo dopo, nell’Ottocento e quasi per caso, in un polveroso archivio. Esattamente come il coevo Vermeer. Anche il genio di Delft si era perso tra una sequela di altri Vermeer, nome diffusissimo tra gli olandesi come da noi “Rossi”. Se il parigino Thoré, critico di pittura e grande amico di Monet, non fosse stato un comunardo e non fosse scappato dalla sua città nel 1870, trovando rifugio nella noiosissima l’Aia. Se visitando i musei locali non avesse notato che tra l’interminabile sequela di opere di pittori di nome Vermeer, ce n’erano alcune che a un amico di Monet e quindi della luminosità del dipinto, non potevano sfuggire, se questo non fosse avvenuto, Vermeer sarebbe rimasto per sempre oscurato.
«E la storia di un altro genio, quest’ultimo vissuto tra l’Ottocento e il Novecento? Emile Bernard. Anche lui precocissimo, diciottenne entra in contatto con i pittori della scuola di Pont Aven, il clan di Gauguin. Giovanissimo Bernard inventa la pittura sintetizzata, dipinge un quadro che sarà copiato da Gauguin nel famoso Cristo giallo che oggi si trova a Buffalo. Poi fa squadra con Van Gogh e Toulouse-Lautrec, frequentano lo stesso atelier, mangiano insieme, sono sempre insieme. Un quadro di Bernard, “Le Bretoni”, dipinto con la tecnica delle vetrate gotiche, ispira un’opera analoga a Gauguin.
«In una lettera Van Gogh ricorda agli amici come, nel loro gruppo, tutte le idee più brillanti fossero di Bernard. Nei circoli avanguardistici è a Bernard che si attribuisce l’invenzione del simbolismo. Nel 1890 Van Gogh si suicida. Bernard dipinge i funerali del pittore olandese, allora sconosciuto ai più, e nel 1892 ne prepara la prima mostra che lancerà il pittore dei girasoli nel Parnaso dell’arte contemporanea. Poi, a un certo punto, Gauguin scomunica Bernard, lo accusa di copiarlo mentre l’analisi dei documenti testimonia il contrario: c’è anche dell’invidia in questo atto. Bernard entra in una fase mistica, se ne va a Istanbul dove diventa un ammiratore dell’arte bizantina. Dipinge alcuni affreschi a Samo. Finisce al Cairo. In Spagna esce dal giro delle avanguardie. Viaggia per l’Italia, studiando la pittura rinascimentale. Torna a Parigi, fonda una rivista antiavanguardista e finisce fuori da tutti i “giri”. Dipinge ancora per quarant’anni tra Parigi, Venezia e la campagna, ma nessuno lo prende più in considerazione. Anche se fa un’importantissima intervista a Cézanne.
«Le sue opere tra classicità e misticismo restano affascinanti ma, quando muore nel 1941, valgono poco o niente. Solo oggi, verrà fatta una mostra al Grand Palais a riconoscimento tardivo della sua grandezza. La sua storia è emblematica perché quando rompe con la tendenza avanguardistica egemonica viene come scomunicato. Si dirà anche che De Chirico lo fece ma restò in gioco.

Ma il pittore italiano mitigò il suo classicismo con qualche sbeffeggio che era come uno strizzare l’occhio ai suoi antichi sodali. Bernard invece scelse una via di separazione integrale. E finì fuori dal gioco: la via, appunto, per diventare umiliati e offesi».
(9. Continua)

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