I fatti raccontano tutta un'altra storia

(...) Una storia che si propone di riscrivere i fotogrammi di omicidi, e che tuttavia è portatrice soprattutto di un messaggio preciso: ciò che avviene a sinistra, anche la barbarie peggiore, ha sempre una giustificazione.
Il lavoro di Donatella Alfonso parte proprio dalle basi sociali della Genova che ha fatto nascere il terrorismo rosso. E per arrivare al 26 marzo 1971 all'assassinio di Alessandro Floris, un umile fattorino dell'Istituto delle case popolari, occorre partire dalla rivolta del 30 giugno 1960 per impedire a un partito politico costituzionalmente riconosciuto e democraticamente rappresentato in Parlamento di svolgere il proprio comizio a Genova. Bisogna risalire ancora più indietro, alle gloriose giornate della resistenza. Il libro traccia molti momenti della storia di Genova, visti e descritti con occhi innamorati di sinistra, che servono al lettore a capire come è nata la Banda XXII Ottobre di Mario Rossi. E poi anche le Br. A capire perché «per i giovani la risposta non stava nel Pci». A capire addirittura come si debba vedere ogni futuro avvenimento di violenza politica che si svolga a Genova, visto che «il 30 giugno è una data che entra nelle vene della Genova antifascista. Altrettanto sarà più recentemente per i tre drammatici giorni del G8, con la morte di Carlo Giuliani, la violenza alla scuola Diaz e le torture alla caserma di Bolzaneto».
Anche la violenza trova quasi una giustificazione. O almeno viene sminuita. Addirittura ridotta a invenzione pura, a propaganda reazionaria. Come nel caso del «mito (del portuale) che vive anche come spauracchio negativo nella borghesia genovese, dipinto a tinte fosche come essere violento e politicamente estremista, rozzo e aggressivo il cui simbolo sanguinario nella mitologia propagandistica degli Anni Cinquanta è il famigerato gancio». Figure magari «mitiche» ma non certo mitologiche.
Donatella Alfonso fa un lavoro di ricerca, si pone come giornalista che raccoglie fatti e soprattutto testimonianze. E la sua grande esperienza si vede tutta. Specie quando usa molti virgolettati di chi si confida con lei anche anonimamente e così spesso le frasi più agghiaccianti sono pronunciate da quanti «usciti dal carcere a fine pena, non sono mai coinvolti nelle categorie della dissociazione, del pentitismo, né della legislazione sul terrorismo», quasi fosse un attestato di merito.
Insomma, a Genova era solo «ripresa la lotta che per tanti è finita troppo presto il 25 aprile 1945». Mario Rossi e i suoi che studiavano i «tupamaros» hanno rapito (il diciannovenne Sergio Gadolla, figlio del noto imprenditore edile), hanno ucciso, hanno organizzato attentati falliti. La loro parabola è nota, scritta più volte e da più parti sempre uguale. «Animali di periferia» si propone di non lasciarla archiviare nella storia. E di riscriverla con fatti veri. Un passaggio chiave del libro è quello sulla foto dell'uccisione del fattorino Alessandro Floris durante la rapina allo Iacp. Si vede Rossi che punta l'arma contro la vittima a terra. È la foto simbolo, Donatella Alfonso la contesta, non come fotomontaggio, ma come cronologicamente falsata. Perché, spiega nel libro, nel momento in cui si vede il braccio teso di Rossi, il colpo mortale è già stato sparato. Cioè il terrorista non è un assassino in quell'istante, è un assassino qualche frazione di secondo prima: eccola la differenza, la verità. Che però ha un significato preciso, spiegato da un altro componente della banda, Giuseppe Battaglia, intervistato come gli altri compagni. «L'immagine che dà la foto scattata dalla finestra da Ilio Galletta non è vera, o almeno non è né un fotomontaggio né il momento dell'uccisione. Come è stata pubblicata sui giornali è una strumentalizzazione che aumenta la cattiveria: “Guardatelo, spara a un uomo a terra”». Questa è la difesa della banda. Sì, non si sono pentiti di quello che hanno fatto, vivono ancora come ai tempi in cui il «Soccorso Rosso» li difendeva gratuitamente, Dario Fo e Franca Rame facevano raccolta fondi per loro, e «non era solo una frase dire continuiamo la resistenza».
Non cambia la sinistra che cancella o giustifica i compagni che sbagliano. Ilio Galletta, il giovane studente che scattò 22 foto dell'omicidio Floris, cresciuto in una famiglia di sinistra e iscritto al Pci, diventato professore all'Università di Urbino, ricorda che parlando tra colleghi, uno di loro disse che la foto «è un elemento costruito per una strategia precisa per incastrare Rossi e i suoi». Facendogli presente di essere l'autore degli scatti e di garantire per l'autenticità, non ottenne risultato. Il collega continuò a sostenere la sua teoria perché la verità era quella decisa dalla sinistra.
E per l'appunto, la condanna che vale per gli orrori della destra non deve valere per quelli della sinistra. Se non bisogna mettere mai sullo stesso piano vittime e carnefici quando a uccidere sono gli «altri», a sinistra tutto ciò si può fare tranquillamente. Intanto nessuno si indigna neppure se un presidente come Sandro Pertini concede la grazia alla «Volante Rossa». Intanto Genova resta la città eroica, nonostante «la troppo lunga stagione di misteri e di sangue, ma soprattutto di vite spezzate, quelle dei morti e quelle di chi ha ucciso». Sullo stesso piano, tutti vittime.
Un passaggio probabilmente sfuggito a Nando Dalla Chiesa, autore del «saggio introduttivo», della prefazione al libro, figlio del grande generale dei carabinieri Carlo Alberto, ucciso da mafiosi che hanno visto la loro vita «spezzata» nell'attentato del 3 settembre 1982.

E se Franco Floris, fratello di Alessandro, oggi dice che chi ha ucciso suo fratello «non ha avuto rispetto per un uomo onesto che lavorava dieci ore al giorno, che hanno calpestato una vita senza alcuna ragione», la risposta è pronta: «ma questo Rossi, quarant'anni fa e oggi, non l'ha mai negato». Come verità «inedita e definitiva» è più che sufficiente.

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