James Bond è più umano ma fa strage... di pubblico

(...) un grande elettore di Matteo Renzi, tanto per dire. Ma due ex sindaci: Beppe Pericu e Marta Vincenzi, in compagnia di suo marito Bruno Marchese. Una senatrice, Roberta Pinotti, accompagnata da sua figlia che la sta superando in altezza ed uguagliando in fascino. Un altro competitor alle primarie del centrosinistra, Andrea Sassano, uomo dell'area alla sinistra del Pd, ex assessore proprio con Pericu. Un deputato, Mario Tullo, il migliore del mazzo, che forse è il più berlingueriano ed ortodosso fra tutti, ma che ha un tratto umano che risalta sempre. Un assessore regionale ai Trasporti, Enrico Vesco, che è anche segretario regionale del Partito dei comunisti italiani, quello di Oliviero Diliberto. Un ex assessore vincenziano e segretario di Rifondazione comunista, oggi con Sel, come Bruno Pastorino, amatissimo da don Gallo, ma a differenza del don, mitissimo, dolce.
Insomma, la platea della prima sembrava il Politburo. Uno di quei Politburo fotografici, con Breznev e Berlinguer, che la splendida regia di Giorgio Gallione ha trasformato in scenografia che cambia continuamente dietro il narratore, Eugenio Allegri. Un bianco e nero essenziale che viaggia di pari passo, insieme alle parole, nella grande prova d'attore di Allegri, all'ennesima conferma del suo straordinario talento che ne ha fatto un grande Cyrano e un grande Novecento con Gabriele Vacis. E qui, forse, all'interpretazione della vita.
Eppure, per Allegri, non era così facile. Proprio perchè raccontare Berlinguer (non «fare» Berlinguer, dato che tutto il testo di Gallione è narrato in terza persona) era probabilmente il suo sogno teatrale degli ultimi anni. Lui, ragazzo di famiglia comunista di Grugliasco, dove Torino era più comunista. Lui, cugino dell'ex allenatore del Genoa Gian Piero Gasperini e a detta dello stesso «Gasp» ottimo numero dieci, che lasciò il calcio per amore del teatro, ma riuscì comunque a farsi eleggere consigliere comunale per il Pci a Grugliasco nell'81. Per il Pci a Grugliasco nell'81, detto tutto.
Insomma, il rischio soprattutto per Allegri, che viveva questo spettacolo sulla propria pelle, era quello di sentirlo troppo. Ma lo era anche per lo stesso Gallione uomo di una sinistra più eterodossa, ma comunque sinistra, alle prese con un testo in cui il rischio di cadere e magari anche scadere nel santino era più che probabile.
Ecco, ora si può tornare alla domanda iniziale. Dallo spettacolo dell'Archivolto è uscito un Berlinguer angelicato o un Berlinguer reale? Ci piacerebbe moltissimo che, al dibattito, ora che lo spettacolo torna in teatro a Genova, partecipassero anche i nostri lettori, ma iniziamo a dare una nostra risposta: nella prima parte, Gallione è molto onesto. Ricorda di quando il leader del Pci disse il giorno della scomparsa di Stalin «è morto il nostro miglior amico» ed è poi durissimo nel raccontare l'orrore dei gulag. Così come è devastante il racconto dell'occupazione di Mirafiori, culminato con l'ennesima sconfitta storica di Berlinguer, la marcia dei 40mila («che forse erano la metà o anche meno») e che gli operai fotografarono con poche, durissime, parole: «Sembrava il nostro funerale».
Insomma, se doveva essere un santino, è un santino con alcune frecce del San Sebastiano al posto giusto. Non tutte, però. Perchè l'ottimo inizio, che non risparmia nulla nemmeno alle sconfitte storiche di Berlinguer, lascia poi spazio a un racconto che, volutamente, programmaticamente, è mirato a portare al monologo finale, molto positivo per Berlinguer, di Enzo Costa. Che è scritto pure davvero bene, dal punto di vista della scrittura, ma che dimentica un altro Berlinguer: quello della sconfitta disastrosa sulla scala mobile; quello dell'opposizione agli euromissili, che furono la svolta per pacificare l'Europa e non per portarla in guerra; quello che non ebbe la capacità di trasformare il Pci in una forza socialdemocratica capace di garantire il diritto all'alternanza, ma fu la migliore garanzia per una democrazia bloccata; quello che guidò il suo partito alle stagioni del consociativismo, dove si litigava furiosamente sui massimi sistemi, ma poi si appoggiavano in commissione tutti insieme, le leggi di spesa e le più demagogiche; quello leader di un partito che prese i soldi da una potenza nemica dell'Italia, tangente (non personale, per carità, niente a che vedere con oggi) moralmente più grave di ogni altra tangente.
Insomma, dal punto di vista teatrale, lo spettacolo è riuscitissimo, Allegri è straordinario e Gallione azzecca tutte le scelte di regia, trasformando un'opera che avrebbe potuto essere un mattone in una cavalcata attraverso quarant'anni della nostra storia. Con un unico grave neo, a mio parere: la deformità insistita sulle foto degli altri leader, da Craxi a Forlani, da D'Alema a Berlusconi, come se Berlinguer fosse l'unico umano in mezzo ad un mondo di mostri, con il grandangolo o in posizioni strane. Posso dirlo? È un giochino troppo facile, sembra Emilio Fede quando storpia i nomi.


Dal punto di vista politico, se si temeva la santificazione assoluta di Berlinguer, il rischio è scampato e ci sono anche esempi di grande onestà intellettuale e storica. Se si sperava che quell'onestà andasse oltre, provando se a demolire almeno a intaccare seriamente il «mito Berlinguer» a Genova, l'occasione è persa.

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