Mirò, l'artista che mise alla berlina il cavalletto

«Dividere il mio tempo tra qui e Parigi, e ogni tanto fare un viaggio a New York, sarebbe ideale per il lavoro e per la salute» scrive Joan Miró nel '54. E come dargli torto? Il qui è Palma di Maiorca. E non potrebbe essere altrimenti: terra bellissima e originaria, da cui proviene sua madre e dove lui, nel '29, ha sposato Pilar. E dove nel '56 decide di trasferirsi quando l'amico architetto Josep Lluís Sert termina di costruire per lui un grande atelier, luminosissimo, in stretta consonanza con quella natura cui da sempre l'artista è inebriato. Qui, a Palma, dirà l'anno dopo, tutto è «Poesia e luce», da cui il titolo di una mostra che di queste è intrisa.
Siamo a Palazzo Ducale, ove dopo la lunga tappa romana al Chiostro del Bramante, approda l'esposizione curata da Maria Luisa Lax Cacho, da oggi fino al 3 marzo 2013. Ottanta le opere, provenienti dalla Fundació Pilar i Joan Miró, per raccontare la fase matura della ricerca del genio catalano. Ma è sempre meglio impiegare il plurale, ricerche, quando si tratta di Miró, che nei tanti anni trascorsi a Maiorca (dal '56 fino alla morte, nel 1983) sperimenta incessantemente idiomi, tempi e spazi più di tecniche e materiali.
Così la mostra, che ci incalza nella scoperta di passioni, suggestioni e desideri dell'artista, che guarda all'arte pubblica, ovvero alla possibile compenetrazione tra arte, architettura e artigianato conscio di quei miracoli che furono i grandi cantieri medievali. A questo voler dare all'opera il massimo respiro ci riconducono gli schizzi per il murale del Terrace Plaza Hotel di Cincinnati o il progetto per le Nazioni Unite e comunque il progressivo aumento dei formati delle sue opere.
A tale espansione fanno contrappunto una rarefazione del repertorio iconografico e del colore. Non si tratta di astrazione - «per me una forma non è mai qualcosa di astratto ma simboleggia sempre qualcosa: un uomo, un uccello, o altro» - ma si vanno configurando nuove risonanze. Così i blu, giallo, rosso arretrano per far spazio anche a un serrato rapporto col nero.
Siamo negli anni '70 e nascono grandi poemi visivi: il respiro rallenta ad assecondare le anse del nero, dello spazio di senso detonato dal vuoto. Miró sta decantando lo shodo, l'arte della calligrafia, osservata da vicino nei due viaggi in Giappone (1966 e '69) e ripensa all'Espressionismo Astratto, in particolare a Franz Kline. Da tempo aveva già messo alla berlina il cavalletto - mai amato come la pittura di cui lo vedeva emblema - per partecipare con dita, mani, il corpo tutto alla creazione dell'opera. Ma Miró non abdica mai a se stesso, alle sue radici, anche dada, e a un certo surrealismo. Al caso quale scintilla del processo creativo su cui si innesta l'artista: «inizio le tele sotto l'effetto di uno choc, che mi fa sfuggire alla realtà» diceva, «così un pezzettino di filo può generare un mondo».
E il suo mondo, mitico, fecondo, magmatico, fatto di donne, uccelli e brani di stelle, è costruito nello spazio e nel respiro di un tempo che non ha bisogno della promessa di un'altra dimensione. Quella sarà già plastica, come mostrano i dipinti-oggetto e le sculture ove l'accoppiarsi o lo stridere dei materiali è superbo.

Amava gli objets trouvés e i readymades, Miró: ed ecco i suoi assemblaggi, con lo spago a sposare la stecca di biliardo, e le fusioni in bronzo sorprese dall'aggiunta di un occhio o di un piede in una processualità continua e unica perché propria della vita.

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