Muore per riparare i panzer: è una vittima del terrorismo

Muore per riparare i panzer: è una vittima del terrorismo

Una battaglia di civiltà vinta, che ha rischiato di fallire per colpa di un computer un po' troppo bacchettone. La storia è quella triste di un militare di carriera, di un ufficiale dell'esercito italiano morto per colpa dell'uranio impoverito senza neppure essere mai andato in missione all'estero, né sul fronte. Ed è la storia di una famiglia che deve fare una guerra ancora più dura, combattuta a colpi di carte bollate, per vincere contro uno Stato che non vorrebbe neppure farsi carico della moglie e dei figli del proprio servitore che ha dato la vita.
Una battaglia vinta grazie all'intervento di un avvocato genovese, Andrea Bava, che è riuscito a far riconoscere per la prima volta in Italia ai familiari diretti del maggiore morto a causa di una grave forma tumorale, almeno un vitalizio e il pagamento degli arretrati. Mille e cinquecento euro al mese per ciascun familiare, l'assistenza psicologica gratuita e l'esenzione da qualsiasi spesa medica: cose che non potranno restituire un marito, un papà morto a 43 anni, ma che almeno aiuteranno chi ha perso tanto a sopravvivere dopo questa tragedia. Un finale apparentemente logico, che però tale non era per il ministero della Difesa, che ha tentato con ogni mezzo di negare l'assistenza ai congiunti del maggiore del Corpo degli Ingegneri dell'esercito, ammalatosi nel 2004 dopo un lungo periodo di servizio al «Polo di Mantenimento Pesante di Nola». Laggiù il militare era capo servizio controllo e collaudi ed è stato per undici anni in contatto diretto con «blindati muniti di apparecchiature (cruscotti, bolle toriche...) comportanti emissioni radioattive e utilizzati in contesti operativi ove massiccio era stato l'uso di munizioni a uranio impoverito».
Insomma, il militare rimetteva in sesto i carri armati di ritorno da zone di operazioni militari dove forze internazionali avevano fatto uso di armi ad altissimo rischio. Il glioblastoma che l'ha ucciso nel giro di un anno è insorto proprio al termine di una lunga esposizione del maggiore a queste radiazioni nocive delle quali non poteva sospettare l'esistenza. Il ministero della Difesa ha tentato di negare il nesso di causa ed effetto diretto, soprattutto ha cercato di dimostrare che «gli studi epidemiologici non dimostrano alcuna associazione statisticamente significativa tra l'esposizione all'uranio impoverito e l'incidenza dei tumori al cervello». Inoltre si è fatto forte del giudizio emesso dal «Comitato di verifica», che nel luglio 2011 aveva negato la possibile correlazione.
Un concetto che non è stato però sufficiente per scagionare il ministero. Perché la battaglia condotta dall'avvocato Andrea Bava per conto della famiglia della vittima è stata portata davanti a un giudice del lavoro, che non ha impiegato molto a stabilire che una simile materia non può essere risolta in via amministrativa, con un iter tutto interno al ministero. Per avere qualche certezza in più, il magistrato ha poi affidato una perizia esterna a uno stimato medico legale, che ha preso in considerazione tutto lo stato di servizio del maggiore. La vittima non ha effettivamente prestato servizio all'estero, ma nella base di manutenzione lavorava «a carri blindati impiegati in missioni dove si è fatto largo uso di materiale bellico ad alta tecnologia la cui esplosione ha determinato produzione e disseminazione di metalli pesanti anche e soprattutto in forma di nano particelle». Sostanze facilmente respirate dal maggiore ammalatosi. E non a caso «lo Stato Maggiore dell'esercito ha ordinato la rimozione e la cementificazione dei materiali in questione per la presenza negli stessi di trizio (isotopo radioattivo), sicuramente nocivo per la salute degli operatori». Insomma, ce n'era a sufficienza per dimostrare che il tumore poteva ben essere stato determinato dal luogo di lavoro del militare, e il nesso negato dal ministero della Difesa, «può risiedere anche in un giudizio di ragionevole probabilità desunta dagli studi scientifici ed anche da dati epidemiologici».


Il giudice ha così condannato il ministero e riconosciuto, per la prima volta, il diritto dei familiari a godere dei benefici della legge sulle vittime del terrorismo. Una sentenza pilota che sta aprendo proprio in questi giorni la strada ad altri casi di militari ammalatisi di tumore in seguito all'esposizione all'uranio impoverito.

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