(...) quello toscano e di quello umbro messi insieme.
Insomma, occorre segnarsi la data. Il 22 ottobre 2012, si parva licet, come il 9 novembre 1989. Allora cadde il Muro di Berlino, oggi cade il muretto di Genova. Che, certo, è molto meno conosciuto e simbolico. Ma è stato anche molto più resistente e duraturo, impossibile anche solo da scalfire.
Ma andiamo per ordine. Perchè non si può capire la caduta del muretto e i vari colpi di scalpello del sindaco di Renzi se non si parte da un'ora prima che si apra il sipario. L'appuntamento al teatro della Corte di piazza Borgo Pila in Corte Lambruschini è alle 21,30, ma già un'ora prima, davanti ai portoni, c'è la coda. Non sono truppe cammellate. E non sono tutti militanti renziani o del Pd, anzi. In moltissimi sono curiosi o appassionati del sindaco, che l'hanno sentito in tivù e sono stati coinvolti dalla semplicità dei suoi ragionamenti. A volte - e capiterà anche nella sera della rivoluzione genovese - Matteo è un personaggio da bar di Lastra a Signa. Eloquio non travolgente e a volte anche battutacce. Però, efficace, capace di conquistare il pubblico proprio con la forza di quelle battute, anche le più grevi. E, una volta che se lo è arruffianato, allora butta lì i carichi da novanta, i concetti pesanti, le cariche di tritolo dialettico che demoliscono, per l'appunto, un sistema di potere prima di singole persone.
Partiamo quindi dalla platea. Dove ci sono milleduecento persone a sedere e tre-quattrocento fuori, che poi vengono fatti entrare in piedi, dopo serrata trattativa con i vigili del fuoco. E sono facce di persone normali, tranquille, interclassiste ed intergenerazionali. Tantissimi i giovani, pochissimi quelli che si incontrano generalmente ai dibattiti delle feste dell'Unità o ai comizi di Bersani o Vendola a piazza Matteotti. Pochi anche i quadri di partito: alcuni perchè devono esserci (è il caso del segretario regionale Lorenzo Basso, che sarebbe fisiognomicamente e caratterialmente renziano, ma è casualmente bersaniano, ma molto soft e in modo morbido e flessuoso, come è nel suo Dna, e del segretario provinciale Giovanni Lunardon, il cui essere bersaniano è invece un modo di essere); alcuni ci sono perchè sono curiosi di esserci, come il presidente della provincia della Spezia Marino Fiasella, che sarebbe pronto a diventare renziano, ma sbianca in volto appena Matteo racconta di quando lui, da presidente della Provincia di Firenze, disse che quell'ente andava abolito e che non si sarebbe mai ricandidato. Fiasella, che difende in ogni modo la sua poltrona con ricorsi e controricorsi, forse da ieri è un po' meno renziano. E poi, c'erano quelli che provano a imbucarsi, papaveri di ogni campo, che pensano che quello renziano sia il carro giusto.
Infine, c'erano quelli che è giusto che ci siano, quasi antropologicamente: Sara Di Paolo, imprenditrice che ha introdotto la serata; il coordinatore genovese Gianluca Mambilla; il tesoriere Agostino Cesareo; il capo dei giovani Michele Bernardini. E poi gli epurati di varie ere di epurazioni «Democratiche»: l'ex vicepresidente della Regione Massimiliano Costa; l'ex segretario del Pd Victor Rasetto, uno che pensa liberale, e l'ex ex segretario Alfonso Pittaluga, altra anima libera che, infatti, venne escluso dalla giunta Vincenzi e dal partito. Oltre, ovviamente, ai due vertici regionali renziani: il consigliere regionale spezzino Alessio Cavarra e il sindaco di Savona Federico Berruti, peraltro circondato da splendide donne.
Insomma, il quadro è chiaro. Pochi uomini di partito, tanta gente comune, affascinata un po' dal fenomeno mediatico Renzi, un po' dal politico. Metteteci anche il particolare che la serata a teatro è gratis e il pienone è garantito. Peraltro, vale doppio, perchè - di fatto - l'appuntamento non è stato pubblicizzato in alcun modo: nè manifesti, nè spot televisivi, ma fondamentalmente tanto passa parola.
Il resto è rottamazione. Anzi, demolizione. Di tutto quello che piace al Pd ufficiale e al Pd ligure e genovese - bersanianissimo - e che fa passare brividi nella schiena di tanti esponenti della vecchia nomeklatura. A partire da quella più pericolosa in una terra dove gli appalti vanno quasi sempre nella stessa direzione: «Sogno una sinistra che pensi di più a bambini e giardini e un po' meno alle cooperative di costruttori» è la dichiarazione da cui si fa precedere Matteo al suo ingresso nella quarta tappa quotidiana del tour «Adesso!», alla quale il sindaco si presenta obiettivamente stanchissimo, tanto che ci mette una mezz'ora buona a trovare il ritmo.
I mille e cinquecento (togliamo un centinaio di uomini d'apparato) applaudono convinti. Il centinaio di cui sopra sorride a denti stretti. Ma è solo l'antipasto. Perchè poi cadono sotto i colpi renziani altri quattro capisaldi della politica del Pd nazionale e ligure e genovese in particolare. Il primo è l'assistenzialismo: che senso ha che lo Stato spenda 70mila euro a testa per estrarre carbone nel Sulcis che nessuno vuole comprare? Ed è un paradigma facilmente trasferibile alle nostre latitudini.
Poi, viene, l'invito a pagare meglio i professori che lavorano bene. Con stroncatura «di un certo sindacato che difende anche quelli che non lavorano». E, ancora, l'invito a arricchirsi e a «mangiare con la cultura, perchè a differenza di quello che diceva Tremonti con la cultura si può mangiare». Splendido, ma «a condizione che usciamo dalla subalternità psicologica che abbiamo avuto nei confronti degli addetti ai lavori». Non è forse il racconto di una certa cultura assistita che ha sempre comandato in questa città e in questa regione?
Ultimo capitolo, quello sulla superiorità morale di cui si sente investita tanta sinistra nazionale e locale: «Non è vero che la sinistra è superiore alla destra. La superiorità morale è quella dell'altruismo sull'egoismo, del coraggio sulla paura, del futuro sulla rassegnazione».
Ripeto: segnatevi la data. Il 22 ottobre 2012, a Genova, è successo qualcosa.
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