La Georgia cessa il fuoco, la Russia no

Chi ha finto stupore nello scirocco non frequenta la politica internazionale. Se l’Occidente di sorpresa è stato colto, significa che siamo messi male in capacità di analisi e di prevenzione dei conflitti che hanno preso il posto della Guerra Fredda che fu, del controllo delle risorse energetiche del tempo che è. I Balcani, sempre e comunque, non vanno persi di vista, come non va perso di vista il metodo aggressivo e spregiudicato reinaugurato da Vladimir Putin, il quale, dopo gli anni dell’avvilimento patriottico, ha tirato su i cuori dei russi. Da capo del Kgb dava ordine ai suoi uomini di cercare i terroristi ceceni «anche nei cessi»; da premier e presidente manda truppe speciali e giustificatamene le chiama «peace keepers». In questi giorni brutti può dire che l’incosciente è stato il presidente georgiano, non lui. Quanto sia ancora fragile il cemento della democrazia russa è facile a dirsi, ma l’Europa ha il dovere di intervenire perché non muoiano altri civili, fosse anche per cominciare l’estenuante trafila dei colloqui e delle conferenze di pace. Ha anche il dovere di non giocarsi l’accesso alle risorse energetiche. In questo percorso la telefonata del presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi, a Vladimir Putin, che è suo amico personale, è una iniziativa giusta, un amico può dire all’altro che esiste un limite invalicabile; se vuole far cadere Saakhasvili, deve sapere che è troppo. Le dichiarazioni dell’opposizione italiana, che si limita a criticare il governo perché dovrebbe fare di più, ne svela, se ce ne fosse bisogno, la povertà di relazioni internazionali. L’imbarazzo di Gorge W. Bush, che in questi giorni si trastulla a Pechino, insomma si trattiene molto a lungo anche per un presidente in uscita, non è piacevole; l’amico georgiano, che gli ha mandato truppe per costruire la pace in Irak, doveva proteggerlo, ma anche impedirgli di intraprendere azioni controproducenti.
La guerra è arrivata come d’abitudine in agosto, quando la politica internazionale tende a distrarsi, e in pieno svolgimento di controverse Olimpiadi. Ma la diplomazia, incosciente, anche un po’ stolta, era ferma da gennaio, da quando la paura dell’accerchiamento era diventata a Mosca prevalente e angosciante. Fattori scatenanti l’indipendenza del Kosovo e l’avvicinamento di Ucraina e Georgia all’Alleanza Atlantica. Gli scontri tra i soldati georgiani, rafforzati da mille marines americani e da un esercito spicciolo ma tosto composto da volontari armeni, azeri e ucraini, con gli ottomila militari russi, arrivati in Abkhazia e Ossezia del sud, andavano avanti da due mesi. I separatisti controllavano già in parte le due regioni dalla metà degli anni Novanta, dopo sanguinose guerre d’indipendenza; avevano rapporti economici con la Russia, ma non hanno mai avuto alcun riconoscimento internazionale. Per Mosca sono merce preziosa per fermare l’ingresso della Georgia nella Nato, per creare una situazione simile a quella del Kosovo, a proprio vantaggio. Ma per Mosca l’Abkhazia è un punto strategico fondamentale anche se la partita sulla Nato fosse persa. La flotta russa potrebbe trovare a Sokhumi, principale centro della regione, un nuovo porto sul mar Nero nel caso in cui Ucraina e Georgia entrassero nell’Alleanza Atlantica. I genieri arrivati da Mosca stanno costruendo ponti, strade e una linea ferroviaria, insomma il collegamento diretto.
Venendo a noi, a Tbilisi passa l’unico oleodotto del Caucaso che non attraversa il territorio russo.

È stato costruito con l’aiuto degli Stati Uniti e ci scorre il petrolio che arriva dai giacimenti azeri sul mar Caspio. Perdere la Georgia, per l’Occidente, significa lasciare al Cremlino il controllo completo delle risorse energetiche dirette in Europa. Capito qual’è la posta in gioco?

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