Il massimo della scienza erano le battute di Moërs, in camice bianco e con barbetta risorgimentale alla Cavour. Esaminava foglietti, passava le notti arrovellandosi su macchie di sangue (o di caffè?), studiava, nel buio del suo stanzino incistato nei meandri del Quai des Orfèvres, le impronte digitali. Intanto Maigret ascoltava, senza peritarsi di nascondere la propria impazienza, quelle relazioni spesso infarcite di psicologia e filosofia spicciole. E poi le traduceva a beneficio di se stesso e dello spettatore che allora, fra il '67 e il '72, cioè il Pleistocene della «detective story» televisiva targata Rai, doveva essere preso per mano dall'«A» alla «Z» nel dipanarsi dell'inchiesta, come un bambino impaurito di fronte ai demoni del crimine.
Moërs era Oreste Lionello, e Maigret era, ovviamente, l'immenso Gino Cervi. In regia, il solerte e acuto Mario Landi; nume tutelare che vigilava di lontano, Georges Simenon, il Maestro. Altro che CSI, altro che tecnologie sofisticate. Erano tempi in cui la Verità saliva alla superficie del video lentamente ma inesorabilmente, in prima e unica serata, come le gocce d'olio tuffate in un bicchier d'acqua. La Scienza era accessoria, serviva unicamente a confermare i sospetti, i retro-pensieri, le intuizioni fermentati in decenni di frequentazione con la grande Commedia Umana nipote di Balzac e figlia della gelosia, o dell'avidità, o dell'invidia, o dell'ambizione... Al posto dei laboratori, ecco le cucine delle portinaie le quali volentieri soffiavano indiscrezioni al Commissario, avvolte dal profumo dello stufato; al posto degli anatomopatologi, ecco le scarpinate solitarie di Janvier e di Torrance, scandite da mille sigarette e intervallate da qualche birra; al posto degli archivi informatici, ecco un cimitero di faldoni polverosi che appena li toglievi dallo scaffale ti facevano starnutire senza rivelarti nulla che già non si sapesse, non si fosse indovinato scrutando i tratti di un volto, il nervosismo trattenuto di una reazione a una certa domandina.
Chiamiamolo pure «ginocervismo», combinato disposto di vecchi merletti e cotolette amorosamente preparate in boulevard Richar Lenoir dalla signora Maigret, ovvero la magistrale Andreina Pagnani, compagna-consulente-moglie-femmina amorosa e madre mancata («Il figlio di Maigret», che bel titolo sarebbe, da proporre alla buonanima del vecchio, irascibile Georges, se fosse ancora tra noi...). Nel bianco e nero degli sceneggiati, allora così si chiamavano, sceneggiati, non fiction, c'erano tutti i colori del giallo e del rosa, del «noir» e del dramma. Lì come pure nelle segrete stanze dell'altrettanto indimenticabile Nero Wolfe, incarnato, incicciato, ingolosito da Tino Buazzelli, fra un'orchidea e un pasticcio di non so cosa, una notiziola giunta alle orecchie fatue ma efficienti di Archie Goodwin alias Paolo Ferrari.
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