Poligono militare delle Basse di Stura, periferia di Torino, il funzionario di polizia abbassa il braccio, trentasei moschetti fanno fuoco all'unisono. A pochi passi, Francesco La Barbera, Giovanni Puleo e Giovanni D'Ignoti cadono fulminati dalla scarica. Solo le 7.41 del 4 marzo 1947 è l'ultima condanna capitale della storia italiana, la pena di morte infatti sarà definitivamente cancellata dalla Costituzione che entrerà in vigore il 1° gennaio dell'anno dopo. E proprio in previsione di questa scadenza, nel corso del 1947 tute le condanne a morte erano state sospese. Eccetto quella di La Barbera, Puleo e D'Ignoti, il loro crimine era stato troppo orribile, il Paese troppo scosso. E la loro domanda di grazia fu inevitabilmente respinta dal presidente della Repubblica Enrico De Nicola.
Il 20 novembre del 1945 i tre, insieme a un quarto complice, Pietro Lala alias Francesco Saporito, avevano infatti massacrato con feroce determinazione dieci persone, colpite a bastonate e gettate ancora vive in un pozzo per un lunga agonia. Una rapina che fruttò ai quattro 100mila lire, qualche gioiello e dei salami che i quattro divorarono per strada dopo il colpo. Dopo qualche incertezza iniziale, le indagini imboccarono la pista giusta e permisero ai carabinieri di arrestare tre dei quattro assassini: Lala-Saporito, l'organizzatore del colpo, era già morto, ucciso in un regolamento dei conti.
Nel dopo guerra Lala, pregiudicato di 21 anni, nato Mezzojuso in provincia di Palermo, sta battendo in lungo e largo il Piemonte in cerca di lavoro. Trova un impiego stagionale nell'azienda colonica di Villarbasse, in provincia di Torino, di proprietà dell'avvocato Massimo Gianoli, 65 anni. Scoperto come l'uomo sia più che benestante, e solito tenere grosse somme in casa, convince tre compaesani, D'Ignoti, 31 anni, Puleo, 32, e La Barbera, 36, ad assaltare l'abitazione. Qui vengono sorpresi oltre a Gianoli l'affittuario Antonio Ferrero e sua moglie Anna, Renato Morra, genero dei Ferrero, il bracciante Marcellino Gastaldi, le domestiche Teresa Delfino, Rosa Martinoli e Rosina Maffiotto. A loro si aggiungeranno successivamente Gregorio Doleatto e Domenico Rosso, mariti di Maffiotto e Martinoli, arrivati a cercare le donne che tardavano a tornare a casa. La moglie di Renato Morra, Annina, invece si salverà perché in ospedale a Rivoli, dove ha appena dato alla luce un bambino. La strage è scatenata inconsapevolmente da Teresa Delfino che riconosce Lala nonostante sia mascherato e gli urla in faccia il suo nome. Da qui la mattanza da cui si salva solo un bimbo di tre anni, il figlio del fittavolo, che non poteva certo capire cosa stesse succedendo. A una a una le vittime vengono portate in cantina, tramortite con un bastone e gettate nella cisterna piena d'acqua.
La sparizione delle dieci persone non può certo passare inosservata, si cerca ovunque, si battono le campagne e finalmente il 28 novembre i loro corpi non vengono scoperti nella cisterna. Dopo quattro mesi di indagini, e una serie di arresti ingiustificati tra cui il fratello di Renato Morra e un ex partigiano noto per il suo carattere violento, i carabinieri guidati dal giovane sottotenente Armando Losco risalgono al D'Ignoti. I militari trovano infatti i resti di una tessera annonaria con il numero ancora leggibile da cui risalgono al suo nome. Rintracciato a Torino, l'uomo confessa e fa i nomi dei tre complici, nel frattempo riparati in Sicilia. Uno però è già morto, è Lala, ucciso in circostanza mai completamente chiarite, con ogni probabilità un regolamento di conti tra balordi.
In attesa del processo i tre vengono rinchiusi prima al carcere di Venaria Reale, poi alla «Nuove» di Torino. Il 5 luglio 1946 si conclude il dibattimento: condanna a morte, pena confermata dalla Cassazione il 29 novembre. Ormai si tratta di sbrigare le ultime formalità e fissare l'esecuzione, prevista ormai per i primi del 1947. Ma in quell'anno tutte le condanne a morte di fatto sono sospese, l'Assemblea Costituente sta redigendo la nuova Costituzione italiana che abolirà la pena di morte. Il delitto dei tre balordi era stato però troppo efferato e aveva particolarmente scosso l'opinione pubblica. Per cui quando sul tavolo del presidente della Repubblica giunge la domanda di grazia, De Nicola non esita a respingerla.
All'alba del 4 marzo 1947 Francesco La Barbera, Giovanni Puleo, Giovanni D'Ignoti escono dalle loro celle accompagnati dal cappellano militare. Arrivati al poligono di Basse di Stura, vengono fatti sedere a cavalcioni su tre sedie, bendati, legati mani e piedi, la schiena rivolta al plotone d'esecuzione. A qualche passo di distanza 36 poliziotti armati di moschetto, 18 dei quali caricati a salve in modo che nessuno sappia se veramente ha ucciso. D'Ignoti mormora le preghiere, gli altri fumano l'ultima sigaretta. Nessun ordine viene dato alla voce, ma al cenno dell'ufficiale gli agenti si dispongono in doppia fila a sei metri di distanza. Prima che venga dato il segnale La Barbera e Puleo avrebbero anche gridato «Viva la Sicilia, via Finocchiaro Aprile», per la cronaca famoso leader del movimento separatista isolano. Poi l'ufficiale abbassa il braccio e parte la scarica.
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