Giri di chitarra e arpeggi di pianoforte. Una ballata continua e zuccherosa

Il sentore di riciclaggio si avverte in molti brani. Le voci? A questo punto, ben venga l'autotune...

Giri di chitarra e arpeggi di pianoforte. Una ballata continua e zuccherosa
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È il Festival della glicemia italiana: testi zuccherosi, musiche accomodanti, cantanti prevedibili e raramente originali (quantomeno in positivo). Insomma, il regno del già sentito. Per carità, sappiamo da anni che la buona musica non è più necessaria alla kermesse che celebra la canzone italiana. Eppure, ogni anno la pochezza dei pentagrammi di Sanremo lascia attoniti. Svincolare la musica cosiddetta leggera dalle regole della grammatica musicale e della composizione classica porta inevitabilmente a canzoni povere nelle melodie (è sempre più invalsa l'abitudine di costruire le frasi su cellule di poche note ripetute), scolorite nelle armonie, mediocri negli arrangiamenti. Un Sanremo, quello di quest'anno, inondato dal genere della ballata. Tutto un Festival basato su giri di chitarra e arpeggi di pianoforte su una manciata di accordi e note tenute degli archi a fare da controcanto, è davvero pochino. Tanto più perché si tratta di brani spesso composti da pattuglie di quattro, cinque, sei, sette autori.

Il sentore di riciclato si percepisce già dall'esordio di Gaia che in Chiamo io chiami tu ripropone Sesso e samba, molto simili nell'impianto generale (con l'aggiunta degli immancabili spostamenti di accento: «Per una bùgia», «chi è il primò»). Stesso copione per Clara: Febbre è un Diamanti grezzi che ha preso la Tachipirina (inguaribili però gli ossitoni: «miò primò», «non dirè», «difficilè»). Problemi con gli accenti anche per Sarah Toscano che in Amarcord fa rimare «romanticà» con «panoramicà». Ma la medaglia d'oro va a Irama e alla sua Lentamente: «freddà», «sòltanto», «comé», «attimò», «agità», «fradicià», «mi tirì la manicà», «cànzone», «ognì», «sensì»... Santò cielò! Ma come si fa? Certo, quando si costruiscono melodie con due o tre note, come in questo caso, il rischio di incagliarsi è elevato. Francesco Gabbani in Viva la vita, tra «unà bugia», «domenicà» e «paralisì», inneggia alla vita con un umile intervallo di quarta e una melodia poco vivificante. Il ritornello della mahmoodiana Se t'innamori muori di Noemi, rimbalzato anche qui all'interno di un intervallo di quarta, avrebbe meritato maggior colorazione armonica. La voce di Noemi graffia, l'armonia no. Su quella bagattella che è Cuoricini dei Coma_Cose sorvoleremo con clemenza. Così come preferiamo tacere su Pelle diamante di Marcella Bella. Absit iniuria verbis.

Del pezzo di Simone Cristicchi Quando sarai piccola si è parlato con toni entusiastici che però non hanno trovato riscontro all'ascolto: performance insufficiente con evidentissimi problemi di intonazione e una scarna melodia basata praticamente su tre note. Il testo, bellissimo e poetico fin che si vuole, lo si può apprezzare leggendolo; ma una canzone dovrebbe possedere ciò che ormai è sempre più raro, la musica. Scritta a ben sette mani, Incoscienti giovani ha presentato un Achille Lauro trasfigurato rispetto agli esordi: vista la media, una canzone che ammicca al podio. A proposito di podio: La cura per me di Giorgia non è un capolavoro, è una sufficienza, ma lei in abbellimenti e fioriture non ha eguali. Massimo Ranieri, invece, è meglio ricordarselo per Perdere l'amore: in Tra le mani un cuore la melodia è poverissima, l'armonia anche e lui non è intonatissimo. Altro brano elogiato anzitempo che delude è il degregoreggiante L'albero delle noci di Brunori Sas. Abbastanza insipido in tutto, ma venendo dopo Willie Peyote, Shablo-Guè-Joshua-Tormento, Tony Effe e Serena Brancale sembra di sentire Schubert.

Infine, una difesa dell'autotune.

L'intonazione nelle performance live di tanti cantanti la conosciamo: per cui, a fronte di canzoni e musiche talvolta imbarazzanti o semplicemente brutte, ben venga l'autotune che, se non altro, toglie un problema al dramma.

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