Giuli: "Via libera per abbassare l'Iva sui beni d'arte"

Oggi è al 22 per cento

Giuli: "Via libera per abbassare l'Iva sui beni d'arte"
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Diceva Agatha Christie che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova. E allora nel mondo dell'arte può serpeggiare un cauto ottimismo dopo l'ultima promessa del ministro della Cultura Alessandro Giuli (nella foto) in merito all'annosa questione dell'Iva più alta d'Europa sulle opere, che rende non competitivo il mercato italiano. L'intervento del ministro alla presentazione dello studio Nomisma sulla situazione del mercato dell'arte in Italia arriva dopo quello del suo sottosegretario Federico Mollicone che al Tefaf di Maastricht, la più importante fiera del collezionismo mondiale, aveva promesso ai galleristi nostrani che sì, l'Iva del 22 per cento sulle compravendita delle opere va abbassata; e che in merito, parole sue, sarà presentato a giugno un disegno di legge. Che la situazione fosse ormai insostenibile è evidente non soltanto dal rapporto Nomisma promosso dall'Associazione Gruppo Apollo che denuncia un preoccupante crollo di un mercato interno dell'arte che genera un giro d'affari diretto pari a 1,36 miliardi e un impatto economico complessivo di 3,86 miliardi. L'Iva al 22 per cento è un autogol in un momento in cui il resto d'Europa ha cambiato marcia: la Francia è scesa al 5,5 per cento, il Belgio al 6, la Germania al 7 e in Lussemburgo all'8. Senza contare il 10 per cento di Iva sull'importazione di beni artistici da Paesi extraeuropei, laddove le opere possono sbarcare a Parigi spendendo la metà; e ancora, il 10 per cento applicato alle cessioni effettuate dagli artisti, contro il 5,5 dei francesi. Il contesto non concorrenziale italiano ha provocato in questi anni la fuga delle grandi case d'asta internazionali che da noi hanno lasciato solo uffici di rappresentanza (Christie's ha appena chiuso la sede romana e a Milano ha presentato l'asta di arte italiana che sarà battuta nella nuova sede di Parigi); il trasferimento all'estero o l'apertura di sedi europee delle maggiori gallerie d'arte italiane; la fuga dei nostri collezionisti verso le fiere europee (alla preview di Maastricht la seconda lingua più parlata era l'italiano); il proliferare di trattative private lontano dalla lente del fisco.

Ora, secondo le stime presentate da Nomisma, l'intera filiera dell'arte (gallerie, restauratori, trasportatori, studiosi e artigiani) potrebbe perdere fino al 28 per cento del fatturato complessivo, con punte del 50 per le piccole gallerie; e ha ben donde il ministro Giuli a dichiarare che «siamo a un bivio che rischia di diventare un punto di non ritorno», conscio anche della cocente delusione di tutto il comparto per la mancata riforma fiscale nel Decreto-Legge Cultura n. 201 approvato in via definitiva lo scorso febbraio.

Anche perché, come il ministro Giuli sa, l'Iva è solo una delle palle al piede al mercato italiano dell'arte; l'altra è la norma sulla notifica in vigore dall'era fascista e che, unica in Europa così vincolante, penalizza la circolazione delle opere che hanno oltre mezzo secolo, adesso anche quelle degli anni Sessanta. Ma questa è un'altra storia.

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