Viviamo nell'epoca della ostentazione dei buoni sentimenti, ma il sentimento più diffuso al mondo è il risentimento. E la matrice del risentimento è l'invidia. Tuttavia, poco o nulla si scrive sull'invidia. E questo, oltre ad essere un peccato, è un pericolo perché come scriveva Helmut Schoeck nel suo invidiatissimo e osteggiatissimo L'invidia e la società «per invidia, l'uomo può diventare distruttore».
Nulla è più pericoloso della comunissima invidia. Fateci caso: quando si afferma che gli uomini devono essere tutti uguali, che cosa si sta sostenendo se non che gli uomini devono essere tutti mediocri affinché nessuno sia diverso e primeggi? L'eguaglianza, al di là del suo posto giusto: tutti uguali davanti alla legge, è l'alibi perfetto per trasformare l'invidia in «giustizia sociale». Il marxismo, ad esempio, ossia un sistema dottrinario e ideologico andato al potere in mezzo mondo e ancora largamente diffuso proprio nella ostentazione dei buoni sentimenti, altro non è che la più grande organizzazione politica dell'invidia. È comprensibile: la cosa fa scandalo, la cosa non piace. Ma è la semplice, umana, troppo umana, verità.
Ecco perché il libro di Helmut Schoeck è, ormai, un classico e la Liberilibri, dopo averlo pubblicato nel 2006, lo rimanda in libreria nella nuova collana degli «inesauribili». Inesauribili, inestinguibili, proprio come l'invidia.
Il destino italiano del libro del sociologo austriaco è fin troppo significativo. Fu scritto nel 1966 e fu pubblicato in Italia da Rusconi nel 1974. Subito piovvero critiche, naturalmente invidiose, e il testo scomparve dalle librerie. Ci volle tutto il coraggio intellettuale di Aldo Canovari per ripescarlo e stamparlo nel 2006. Canovari si augurava che la nuova edizione de l'invidia e la società superasse le «avversità dell'invidia» per contribuire a far cogliere «la vera matrice psico-antropologica di alcune ideologie politiche tuttora dominanti». Quirino Principe, scopritore italiano di Helmut Schoeck, nella sua introduzione sottolinea con rigore che la questione dell'invidia è antropologica piuttosto che sociologica: insomma, riguarda l'uomo in quanto uomo e solo secondariamente la società. Una differenza non da poco che diventa preziosa in tempi come i nostri in cui l'invidia è diffusa e camuffata a piene mani con i social e così è usata nel tentativo non di elevare il sentimento umano bensì di abbassarlo, mortificarlo e livellarlo verso il basso negando ogni tipo di conquista, distinzione, merito. L'invidioso non confessa né agli altri né a sé di essere invidioso perché l'invidia, esponendo chi la prova, genera vergogna.
Ma proprio questa natura vergognosa dell'invidia deve essere schiarita, altrimenti si corre il rischio che il livore venga mascherato nell'intenzione di giustificare l'ingiustificabile: distruggere l'altro che è stato più bravo di me o, sul piano della cosiddetta «lotta di classe», distruggere gli altri che sono stati più bravi di noi.Attraverso l'invidia e il suo camuffamento, l'uomo politicamente organizzato si arroga il diritto che compete soltanto a Dio: correggere il mondo.
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