Il gol più politically correct del mondo

Ciabalala è la pronuncia che ha illuso il mondo. L'ha urlata Caressa da una parte, la Rai dall'altra a un certo punto di un pomeriggio. Un gol da urlo che nasconde la voglia del pianeta di regalare al Sudafrica di andare avanti il più possibile. Sono tutti Bafana Bafana adesso. Un sentimento molto trasversale e molto politicamente corretto

Il gol più politically correct del mondo

Ciabalala è la pronuncia che ha illuso il mondo. L'ha urlata Caressa da una parte, la Rai dall'altra a un certo punto di un pomeriggio. Il Mondiale, eccolo. Cia-ba-la-la, come una cantilena che si schive Tshabalala, ma si dice molto più semplice. Il mondo e il Mondiale in piedi per tifo più che per sportività. Un gol da urlo che nasconde la voglia del pianeta di regalare al Sudafrica di andare avanti il più possibile. Sono tutti Bafana Bafana adesso. Un sentimento molto trasversale e molto politicamente corretto. Adesso molto deluso.

Perché Ciabalala ha abbagliato il suo Paese diviso tra la speranza di vincere e la delusione di non aver visto Nelson Mandela sugli spalti dello stadio di Johannesburg. Assente per lutto, in una specie di destino che gli ha tolto l'unica ora che in questo Mondiale avrebbe meritato di essere sua. Mandela doveva essere la star della cerimonia di inaugurazione: il totem umano da osservare per ringraziarlo di questo evento. Non c'era per quell'incrocio di storie che regolano il fato: la notte tra giovedì e venerdì è morta Zenani, la sua pronipote. Morta in macchina. Morta per il Mondiale: tornava dal concerto di inaugurazione della Coppa del mondo. Aveva tredici anni. Mandela è rimasto a casa, senza tv, senza riflettori, senza il trionfo, senza la liturgia del mondo ai piedi di Madiba per chiedergli scusa della cattiveria bianca. Ha deciso la sorte che ha condannato Madiba al dolore e il pianeta intero alla astinenza da confessione dei propri peccati.

Allora Ciabalala. L'opposto di Mandela e quindi il Sudafrica sorridente, ballerino, festeggiante. L'altra faccia della giornata, l'altra faccia che poi però diventa la stessa: perché l'urlo incessante della Vuvuzela s'interrompe una volta sola nella giornata di Jo'burg, quando Marquez segna per il Messico un gol che significa un punto appena, che vuol dire delusione, che racconta tristezza. Perché il Sudafrica crede davvero di poter arrivare in fondo a questo Mondiale. Dove? Dicono quarti, forse semifinale: ci sono bookmaker che ci credono per motivi sportivi, molti altri per ragioni politiche. Perché è vero che se ci fosse un solo Paese da aiutare, sceglierebbero tutti questo. Bafana Bafana, come se tifare per il Sudafrica scaricasse le coscienze. Fa sentire buoni e fa sentire attenti. Una telecamera al centro di Soweto, per dirci che in fondo noi tutti veniamo da lì, dalle difficoltà della vita e di un apartheid che a volte non si vede ma c'è, per bianchi, neri, settentrionali e meridionali. Come se tenere in alto il Sudafrica significhi alimentare il suo sogno. Allora via nel villaggio Zulu, per raccontare quello che ovviamente dev'essere raccontato oggi: che a quel gollazzo di Tshabalala posti come quello, dimenticato da Dio e dagli uomini, hanno goduto per la prima volta nella vita.

Cia-ba-la-la, ancora. Una scansione sincopata di un nome simpatico: rimarrà un personaggio di questi Mondiali. Suo il primo gol, suo l'inizio di un'avventura che continua a viaggiare a due velocità: globale quando entra nei campi, no global quando resta fuori per cercare di dimostrare che in fondo l'Africa ha molto da insegnarci della vita, della sofferenza, della solidarietà. E vai con le Vuvuzela, ancora. Un rumore incessante, assordante, estenuante: saranno la colonna sonora di questa Coppa del mondo, il ritornello che a volte rende un po' meno seria la partita: sembra di essere in un cartone animato, più che nella realtà. Toglie le urla degli allenatori, cancella i fischi, annulla gli ululati. Le Vuvuzela rendono folkloristico l'evento e però lo snaturano. Perché finisci per concentrarti più su quella litania che sulle azioni: per Sudafrica-Messico meglio così. Perché l'esordio del Mondiale è stato mediocre. Forse colpa del Messico, perché a nessuno verrebbe in mente di criticare il Sudafrica. Erano partiti per andare chissà dove, con il presidente Jacob Zuma a urlare al microfono il suo slogan infelice: «Siamo pronti per la guerra».

Tshabalala è l'unico eroe perché ha cancellato l'assenza di Mandela per un po'. Il resto è un vorrei ma non posso: il ct Parreira ha fatto fuori Benny McCarthy per lasciare il posto a Kathlego Mphela. Aspettavano lui i Bafana Bafana e tutti gli altri, non Tshabalala. Il loro nuovo idolo s'è visto una volta sola e sarebbe stato meglio il contrario: a un minuto dalla fine ha goffamente divorato l'occasione di dare a se stesso al suo Paese e al mondo la giustificazione di tifare a ogni costo per il Sudafrica. Palo. Brutto, incredibile, grossolano. Così come molto altro di una partita mediocre. Abbiamo letto di tutto in questi giorni, persino paragoni tra il triangolo magico Pienaar-Modise-Mphela e il Ronaldinho-Rivaldo-Ronaldo del Brasile campione del mondo nel 2002 in Giappone. Non c'è neanche lo spazio per una prova di riparazione. Qui siamo lontani da molto meno della perfezione. Siamo lontani, tranne lì, in quell'azione che riconcilia con questo sport: una palla recuperata, tre passaggi, un tiro a incrociare che finisce esattamente dove chiunque vorrebbe che finisca: là dove il palo incontra la traversa a formare una casetta che è il desiderio di ogni calciatore.

L'ha presa Tshabalala, con le sue trecce e la sua esultanza da allegro danzatore: in fila lui più altri compagni. Il ritmo, la piroetta, i sorrisi.

La seconda miglior cosa vista nel pomeriggio in cui il mondo ha scoperto il Mondiale africano: la seconda su due. Un po' poco. Bisogna avere fiducia: chi credeva di ubriacarsi di divertimento in Sudafrica-Messico prendeva in giro se stesso.

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