"Sentenza Ue distorta". Il Viminale fa ricorso contro la sentenza sui migranti

Il Tribunale di Roma aveva bocciato il trattenimento dei 12 migranti in Albania, trasferiti in Italia sabato scorso dopo la mancata convalida: le istanze del ministero dell'Interno presso la Cassazione arrivano il giorno dopo il decreto ad hoc del governo Meloni

"Sentenza Ue distorta". Il Viminale fa ricorso contro la sentenza sui migranti
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Appena ventiquattro ore dopo il nuovo decreto licenziato dal Consiglio dei ministri, che ha reso norma primaria la lista dei Paesi sicuri traslandola dal decreto interministeriale, adesso arrivano anche i ricorsi da parte del ministero dell'Interno contro la sentenza dei giudici di Roma che non hanno convalidato i trattenimenti in Albania, nel centro di Gjader, dei dodici egiziani e bangladesi (subito trasferiti in Italia lo scorso sabato) con l'applicazione della sentenza della Corte di Giustizia europea.

Stando a quello che ha appreso l'agenzia Adnkronos, nel testo dei reclami presentati presso la Corte di Cassazione l'Avvocatura dello Stato (che ha ricevuto il mandato direttamente dal Viminale) utilizzerebbe termini non dissimili da quelli ascoltati ieri sera in conferenza stampa dal Guardasigilli Carlo Nordio, il quale ha accusato i giudici di non avere compreso il verdetto Ue e di averlo applicata in maniera parziale e con motivazioni carenti. Sotto questo punto di vista, parlando infatti di "ordinanze errate e ingiuste", viziate da motivazione apparente, addirittura in violazione della stessa direttiva europea 32/2013 al centro della sentenza Ue applicata dai giudici capitolini.

Nel frattempo il Viminale chiede anche l'attenuazione dei ricorsi alle Sezioni Unite della Cassazione, rilevando novità rispetto alla giurisprudenza in materia. Ecco poi le motivazioni. Le ordinanze dei giudici - si legge - sarebbero viziate dalla disapplicazione della lista dei Paesi sicuri, quella oramai superata dal nuovo elenco inserito nel decreto di ieri. Una disapplicazione avvenuta "sulla base di un'interpretazione delle norme dell'Unione" che distorce "la sentenza del 4 ottobre 2024 della Corte di Giustizia Ue". E qua si arriva al punto che, in qualche modo, era stato sollevato anche dal ministro della Giustizia Nordio, a fianco del sottosegretario Alfredo Mantovano e del ministro dell'Interno, Matteo Piantedosi: secondo il dicastero guidato da quest'ultimo, infatti, la sentenza si era espressa solo sull'impossibilità di designare un Paese sicuro escludendo parti di territorio.

Quindi non, come invece ritenuto dai giudici, sull'esclusione di categorie di persone a rischio: un'ipotesi che riguarda la maggior parte dei Paesi considerati sicuri dall'Italia, compresi il Bangladesh e l'Egitto. I giudici hanno applicato la sentenza in modo estensivo perché l'articolo 37 della direttiva 32/2013 aveva abrogato la precedente normativa che conteneva entrambe le ipotesi, di cui nessuna è rientrata nel medesimo articolo, per il quale la Corte Ue prescrive una interpretazione "restrittiva" alla lettera. Una decisione che i ricorsi del Viminale contestano duramente: "Nella sentenza non vi è alcun riferimento alla possibilità per gli Stati di precisare informazioni in merito a categorie di soggetti", viene detto.

Il tutto rivendicando la legittimità della precedente lista di 22 Paesi che in merito all'esclusione di categorie di soggetti, dunque, rimarrebbe legittima lasciando comunque alla persona la possibilità di rilevare "gravi motivi" per ritenere non sicuro il suo Paese di origine. Si tratta in definitiva di un'interpretazione diametralmente opposta dai giudici di Roma, le cui ordinanze si chiede vengano cassate "per avere affermato l'errato principio". Inoltre, i ricorsi accusano i giudici di aver scritto ordinanze viziate da "assoluta carenza di motivazioni (art. 360 comma 1 c.p.c.)".

Insomma: i giudici non sarebbero entrati nel caso singolo, ritenendo così di non dovere analizzare individualmente la provenienza da Paese sicuro.

Provenienza che, a loro avviso, era delegittimata ai fini della procedura in Albania dal principio generale enunciato dallo stesso articolo 37 della direttiva in questione. Una ricostruzione normativa che, secondo il Viminale, è sbagliata e che avrebbe omesso di motivare perché il Paese preso in esame non possa essere considerato sicuro ai fini delle procedure di asilo.

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