Origini e stop di un pasticcio anche tecnico

Il primo errore è stato ripescare il vecchio nome: Redditometro

Il viceministro Maurizio Leo
Il viceministro Maurizio Leo
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Il primo errore è stato ripescare il vecchio nome: Redditometro. Curioso che le teste d'uovo del ministero delle Finanze non si siano rese conto, visto che sei anni prima la misura era stata abolita a furor di popolo. Un nome diverso, magari più in sintonia con lo slogan «fisco amico» coniato per indicare il nuovo corso, non avrebbe cambiato gli obiettivi del provvedimento, ma probabilmente avrebbe ridotto il tasso di ribellione nella valutazione dei contribuenti. Il secondo errore è la modalità furtiva con cui il decreto è stato pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale, senza prima un passaggio (obbligato, vista la delicatezza del tema) in Consiglio dei ministri: una leggerezza che di per sè offusca la buona fede - che pure è stata rivendicata - di chi ha concepito il provvedimento. Ciò detto, sarebbe ingenuo credere che il viceministro Maurizio Leo abbia fatto tutto da solo: impensabile che della misura non si sia parlato in questi mesi in ambito governativo, quantomeno a livello ministeriale visto che è stata presentata come propedeutica al miglioramento dei rapporti con Bruxelles. E neppure è credibile che Leo, stimato commercialista molto apprezzato anche per l'equilibrio dimostrato nel maneggiare una materia tanto delicata, non si sia confrontato con i suoi ex colleghi nel definire i paletti del nuovo misuratore delle spese fuori target. Basta leggere le osservazioni di Elbano de Nuccio, presidente del Consiglio nazionale dei commercialisti, per comprendere che il provvedimento è a grandi linee condiviso da una parte rilevante della categoria che, va ricordato, fu la prima a levare gli scudi, mantenendo viva la critica fino alla sua abolizione, contro il Redditometro originale varato nel 2015 dal governo Renzi. Del resto, le differenze con il nuovo modello sono sostanziali. Per esempio, non dispiace ai commercialisti perché prevede un doppio contraddittorio. Anzitutto il contribuente ha la possibilità di dimostrare che il finanziamento delle spese giudicate in eccesso è stato effettuato da soggetti diversi, magari per ragioni legate alla sua professione; oppure che certi beni considerati di lusso in realtà non lo sono. Interessante la seconda fase dell'accertamento, che scarica sulle Entrate l'onere di spiegare dettagliatamente perché ritiene incongruente il reddito dichiarato. Oltretutto viene introdotto un limite (il 20% delle spese) entro il quale l'incongruenza non è ritenuta tale. In altre parole, se non usato come arma impropria, il provvedimento appare in linea con la riforma del fisco che Leo sta portando avanti e che lo stesso Parlamento concepisce come premiante per il contribuente corretto, essendo peraltro agganciato a meccanismi di contrasto preventivo all'evasione. Non a caso il nuovo fisco prevede l'adempimento collaborativo e il concordato preventivo biennale.

Quanto alla privacy, la cui difesa viene giustamente pretesa da ogni cittadino che goda pieni diritti, vista la mole di dati nella disponibilità dell'amministrazione finanziaria è ipocrita proporre distinguo pretestuosi se si tratta di mettere tale capacità di ricognizione al servizio della lotta all'evasione. Il punto è quale uso viene fatto di quei dati: dice nulla la pratica di dossieraggio alla Pasquale Striano? Per questo è giusto pretendere il massimo rigore da chi li maneggia. Ciò non toglie valore alla ricognizione.

In ogni caso, visto il clamore suscitato dal modo non proprio ortodosso con il quale la misura è venuta alla luce, bene ha fatto il premier Giorgia Meloni a sospendere sine die l'efficacia del provvedimento con lo scopo di smussare e modificare le parti che si prestano ad equivoci.

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