(...) i colori sulla tela. Il graffito risponde alla medesima logica di liberazione di una energia pura, istintiva, intimamente ribelle alle convenzioni. Ma è raro che certi vertici artistici vengano toccati dal semplice istinto e dalla semplice rabbia. Per quanto riguarda la rabbia giovanile, il corrispondente musicale dei graffiti potrebbe essere il rap, se non fosse che il rap accetta la convenzione del ritmo e persino delle vecchie rime, mentre i graffiti molte volte sono qualcosa che risponde soltanto al desiderio di lasciare una traccia della propria presenza in un luogo. Una volta, i lettori meno giovani lo ricorderanno, c'era qualcuno che scriveva il proprio nome con quello della propria ragazza sulla corteccia di un albero, disegnava un patetico cuore trafitto, aggiungeva la data. Oggi ancora leggiamo sui muri scritte di amore, di protesta, di odio. Ma più spesso vediamo il frutto di un desiderio esibizionista di dire: ci sono.
E non si capisce se in quel «ci sono» stia un po' di residuo amore per se stessi o non piuttosto un violento odio per la città, per la realtà intera. Il termine «graffiti» deriva da «graffiare» che a sua volta deriva dal verbo greco che vuol dire «scrivere». In questo senso, siamo tutti graffitisti. Se non si graffia più ma si digita soltanto per la scrittura, si può ancora graffiare metaforicamente con le parole. È bene che rabbia, disperazione, disillusione, e anche fantasie e utopie non restino inespresse. La grande arte ha sempre dato loro voce. Ma nella società di massa c'è la voce indistinta di tanti che vuole vedere la luce. Ecco allora che l'idea di concedere muri di Milano ai giovani graffitisti ha un senso. Il confine tra una creatività magari ingenua ma attiva e la brutta passività del teppismo così diventa chiaro.
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