La Forza del Destino, la ventiquattresima opera di Giuseppe Verdi, che torna ad inaugurare la stagione della Scala dopo 59 anni, è una successione di situazioni ultra drammatiche, un precipitato di melodramma che accoglie, secondo il modello di Shakespeare, genere aulico e comico, linguaggio lirico, eroico e canagliesco.
Fin dall'inizio il legame dei non-promessi sposi Alvaro e Leonora, l'amore impossibile fra un principe di sangue «meticcio» e una nobile spagnola, è avversato dal padre e dal fratello dell'eroina, il Marchese di Calatrava e suo figlio Carlo. Questi, causa superbia aristocratica del primo e cieca sete di vendetta del secondo, trovano la morte all'inizio e alla fine del dramma. Alvaro li uccide per fatalità e per legittima «offesa», spinto, guidato, trascinato dall'implacabile forza del suo destino. Questo triangolo-quadrangolo familiare inizia a Siviglia come il Don Giovanni di cui è una specie di ribaltamento, il presunto seduttore diventa assassino per fatalità e poi monaco per espiazione, e il suo destino si interseca con una brulicante umanità di soldati e pellegrini, di mercanti e indovini, di monaci e questuanti.
Nella trama Verdi e il suo librettista Francesco Maria Piave inserirono nel dramma del duca di Rivas, Alvaro o la Fuerza del Sino, un quadro tratto da un'altra pièce teatrale, il Campo di Wallenstein di Friedrich Schiller, per dare ulteriore spazio a una varia umanità. Nel campo di guerra nei presso di Velletri troviamo il frate Melitone che rivolge una predica apocalittica contro i vizi del tempo, ritorna la zingara Preziosilla che incita i soldati alla guerra e Mastro Trabuco, il «rivendugliolo» che si aggira nel campo con le sue mercanzie, sbeffeggiato dalla soldataglia.
Quest'abbondanza di personaggi di contorno attorno al classico trio soprano&tenore avversati dal baritono, è una delle difficoltà maggiori per chi deve approntare la vasta compagnia di canto che quest'opera richiede, soprattutto oggi che l'opera si dà nella sua integralità, senza tagli.
Una lettera di Verdi all'amico pittore Vincenzo Luccardi, che gli aveva riferito l'esito freddo della prima italiana della Forza al Teatro Apollo di Roma nel febbraio del 1863, ci illumina su quali fossero per l'autore le caratteristiche della protagonista e in generale sull'interpretazione adeguata del personaggio.
«É certo che nella Forza del destino non è necessario saper fare dei solfeggi e delle cadenze, ma bisogna aver dell'anima e capire la parola ed esprimerla». Si riferiva al fatto che il leggendario impresario romano Jacovacci detto sor Cencio aveva puntato tutto sul nome delle due sorelle Carlotta e Barbara Marchisio (Leonora e Preziosilla), vocaliste ammirate ma evidentemente scarse di temperamento e incapaci di esprimere la cosa che più importava a Verdi, la parola scenica, la parola che diventa canto e azione.
Verdi proseguiva nella lettera elencando tutti i punti in cui il soprano determina il successo dell'opera. «È certo che con un soprano animato avrebbe avuto successo anche il Duetto del 1° atto con Alvaro (A per sempre, o mio bell'angiol), l'aria del secondo atto (Madre, pietosa Vergine), la Romanza del Quarto (la giustamente celebre Pace, mio Dio), e soprattutto il Duetto col Guardiano del secondo atto (la non meno famosa Scena della vestizione). Ecco quattro pezzi mancati per l'esecuzione. E quattro pezzi son molti e possono far la fortuna di un'opera!»
A questo dovrebbero pensare i gazzettieri quando sciolgono i loro peana appena sentono una «bella» voce in azione; a questo penserà Anna Netrebko, fin d'ora talismano di successo delle ultime inaugurazioni scaligere, che avrà sicuramente in tasca le arie celebri di Leonora, ma che l'ascoltatore attento attenderà in tutto il resto dell'opera, dove ci vogliono parola scenica e anima. Dopo il forfait di Jonas Kaufmann molta pressione cade sule spalle di Brian Jadge nella non meno impegnativa parte di Alvaro che non si può risolvere solo con un canto eroico, di forza, vedi la sua grande scena e aria nel campo di Velletri (O tu che in seno agli angeli). Poi Verdi aggiungeva nella stessa lettera un altro rimprovero al Sor Cencio che non aveva scritturato per la parte di Fra Melitone un cantante adeguato («La parte di Melitone è d'effetto dalla prima parola all'ultima»), pensandolo un ruolo minore, un fatto che il pubblico romano riprovò fischiando sonoramente il malcapitato Giaocchino Ramoni. Alla Scala queste cose son capitate, risalendo agli ultimi precedenti illustri, quando Melitone fu affidato a Renato Capecchi e Sesto Bruscantini. Oltretutto un buon Melitone che è una specie di Don Abbondio spiccio e diretto, serve da contrasto a far emergere la statura del Padre Guardiano, il primo basso, che ha un'autorevolezza da Fra Cristoforo manzoniano.
Le analogie fra il Romanzo di Manzoni e l'opera di Verdi non si limitano al tempo storico dell'azione, il Seicento, ma sappiamo la venerazione del compositore per lo scrittore capace di spaziare in tutti i registri dell'animo umano.Giovanni Gavazzeni
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