Pechino - Sembrava di vedere la faccia di un cinese, di quelli che ti mettono in soggezione: freddo, impenetrabile, affabile ma dal sorriso stereotipato. Invece era la cerimonia che doveva stupire il mondo. Forse ce l’ha fatta, ma soltanto all’inizio e magari in quella surreale passeggiata nel cielo in cui si è avventurato Li Ning, il ginnasta delle sei medaglie a Los Angeles, nel 1984. È stato lui l’uomo cui la Cina ha chiesto di accendere il tripode olimpico, una sorta di self made man capace di dimostrare che tutto è possibile, nello sport e nella vita. Oggi è un famoso industriale, ha vestito la nazionale cinese a Sydney e Atene, fattura 4,35 miliardi di yuan (4,35 milioni di euro).
Copiando un po’ Los Angeles e un po’ Sydney, la sceneggiatura ha fatto innalzare Li Ning nel vuoto del cielo, fino a posarlo sull’ultimo anello di questo stadio a Nido d’uccello, lo ha fatto camminare su un piano verticale a circa 100 metri da terra per arrivare a distanza di tripode, gigantesco cono acceso da una serpentina di fuoco innescata dal volatile umano. Sembrava di rivedere l’uomo missile lanciato a Los Angeles verso il braciere e l’invenzione di Sydney per permettere l’accensione a Cathy Freeman, il simbolo della riconciliazione dell’Australia con gli aborigeni. Ma tra l’inizio e la fine, suvvia, più di uno sbadiglio sarà scappato a tutti. Non c’è cerimonia inaugurale che tenga il ritmo. Poi si gioca sulle emozioni, sulle sensazioni, sulle novità. Nel Nido d’uccello di Pechino, lo stadio olimpico più caldo e soffocante degli ultimi venti anni, sono state più le sorprese che le emozioni. Un popolo non può essere quello che non sa essere. Ti presenta l’involucro, non la sua anima. Chi ti ha fatto capire l’anima della gente, se non i sorrisi lucenti delle migliaia di figuranti, ragazzini e ragazzine che hanno creduto alla festa di una vita, la bambina lanciata verso il futuro o la soddisfazione palpabile dei volontari, quando si sono sentiti citati dal presidente del Cio, Jacques Rogge. Los Angeles risvegliò il mondo quando presentò una festa meno conformista e fece intuire che stava scoppiando l’era della cerimonia tecnologica a uso e consumo televisivo. Barcellona fu una festa di colori e voglia di vivere. Atlanta mise i brividi quando la mano tremante di Muhammad Ali riaccese il fuoco di Olimpia. Sydney cercò di raccontarci le storie difficili di convivenza con i Maori. Atene è stata quanto mai celebrativa, ridondante, ma emozionante.
Ieri, chissà quanti occhi sbarrati davanti a quel mulinare di luci come fossero danze nella notte, colori, invenzioni tecnologiche, fuochi d’artificio capaci di abbacinare, cambi di scena ad effetto ohhhhh!, costumi abbaglianti, 2.000 percussionisti impegnati a suonare il fou, il più antico strumento fatto d’argilla o di bronzo, ci hanno ricordato l’immagine di un esercito che arriva da lontano e lascia nell’orecchio il rombo di un tuono. Suono metallico, però.
La festa di Pechino è stata piena di tutto: simbolismi e qualche rancore. Anche negli umori dei 90mila appostati sulle tribune: osanna per gli Stati Uniti e l’Irak, salutato dalla mano del presidente americano George W. Bush, per Taipei e Hong Kong, un po’ di freddezza per l’Italia ingrigita in abiti insipidi, nonostante lo sfolgorante sorriso di Antonio Rossi, festa di popolo per il miglior esercito cinese della storia (quello sportivo), simpatia per gli scatenati spagnoli, un pizzico d’umanità quando abbiamo visto il primo ministro russo Vladimir Putin in camicia e il principe Felipe di Spagna pure. Invece Bush e il francese Nicolas Sarkozy, pescati in infantile felicità, hanno sofferto le pene della giacca. Anche se il leader americano se n’è andato prima della fine.
La Cina ci ha raccontato la sua storia, fatto sfilare i suoi campioni olimpici, ci ha restituito l’emozione riportandoci a quell’esercito di terracotta sepolto a qualche centinaio di chilometri da Pechino. Ci ha illuminato, ma non emozionato. Sorriso, inchino e ora tocca allo sport.
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