L'uomo che ha cambiato la storia del Mossad è morto nel 2016. Ma la sua eredità continua a essere il centro del modo di operare del servizio segreto israeliano. Il suo nome è Meir Dagan, e ancora oggi è considerato non soltanto l'architetto nel nuovo Mossad, ma soprattutto uno degli incubi ricorrenti di Hamas, dell'Iran, di Hezbollah e di tutti i nemici dello Stato di Israele.
Dagan faceva parte di quella generazione di israeliani che arrivarono nel Paese dopo la sua fondazione. Era nato a Cherson, nell'attuale Ucraina, e si trasferì in Israele a cinque anni con due genitori sopravvissuti all'Olocausto. Una storia personale che per molti osservatori ebbe un peso enorme nella vita di Dagan, tanto che egli stesso, una volta ritirato dal Mossad e dedicandosi alla politica, ne parlò apertamente in un raduno a Tel Aviv: “Mi sono ripromesso che quei giorni non sarebbero più tornati. Spero e credo di aver fatto ciò che dovevo per rispettare questa promessa”.
La promessa l'ha mantenuta ponendosi un unico obiettivo: eliminare tutti i nemici di Israele. Entra nel 1963 nei paracadutisti. Poi, l'allora generale Ariel Sharon, figura fondamentale di tutta la sua vita, lo portò a guidare le forze speciali anche nella Striscia di Gaza e nella guerra del Libano. Fu uno dei primi ufficiali a entrare a Beirut negli Anni Ottanta. E nel sud del Paese dei cedri, il territorio in cui le Israel defense forces ora cercano di sradicare completamente Hezbollah, guidava le unità di collegamento per riuscire a eliminare tutti gli avversari del governo israeliano.
Lì, nel Libano che oggi è l'epicentro della guerra di Benjamin Netanyahu, Dagan divenne una figura centrale. Al punto che quell'esperienza, anche dopo il ritiro delle truppe ebraiche, fu fondamentale per far sì che Sharon facesse ricadere su di lui la scelta di chi dovesse guidare il Mossad. Dal 2002 al 2011 è stato al vertice dell'agenzia di intelligence esterna per risollevare le sorti del servizio segreto dopo anni in cui sembrava non essere più in grado di mostrare la sua famigerata letalità. I nemici dello Stato ebraico si stavano rafforzando. E ai suoi confini, troppe cose si muovevano senza che Israele potesse mettere in chiaro che nulla sarebbe accaduto senza il suo consenso.
Dagan era l’uomo perfetto. Ruvido, durissimo, letale. Un falco tra i falchi, ma senza alcuna logica messianica o ideologica. La sua mente era quella di un soldato cinico e profondamente attento a evitare il caos. Pragmatico ma allo stesso tempo spietato con qualsiasi nemico. Ed è in quella stagione alla guida del Mossad che l'agenzia forgiò su sua indicazione la struttura che l'ha portato a colpire l'Iran anche in questi anni. Fino a queste settimane. Nella mente di Dagan, per nove anni, è esistito solo un obiettivo: colpire l'Iran e la sua rete di interessi, in particolare l'alleato Hezbollah. La milizia sciita l'aveva conosciuta in Libano. E il capo del Mossad sapeva che quella di Hassan Nasrallah non era una compagine come le altre. Così, negli anni, ha pianificato ogni cosa nei minimi dettagli, riuscendo soprattutto a ristabilire la centralità delle operazioni del Mossad nei piani di Israele. E da allora, il servizio segreto dello Stato ebraico è tornato a essere uno dei più temuti al mondo. Una serie di operazioni segrete incredibili. Qualcuna addirittura solo sussurrata nei corridoi dei palazzi del potere senza che mai vi fossero conferme, raid che non lasciavano alcuna traccia come i bombardamenti di un convoglio in Sudan o addirittura quello che poi negli anni è diventato forse il suo più grande successo a capo del Mossad: la scoperta e la distruzione dell'impianto nucleare di Deir Ezzor, in Siria.
Negli anni, il suo marchio di fabbrica iniziarono a essere anche gli omicidi mirati. Tra scienziati nucleari iraniani, comandanti siriani e di Hezbollah, leader delle milizie e operativi di Hamas e del Partito di Dio, Dagan conosceva tutto: nomi e cognomi, movimenti, obiettivi. E iniziò una campagna senza esclusione di colpi in cui lo scopo era quello di indebolire costantemente gli avversari dall'interno, con la decapitazione, spesso anche assoldando agenti interni agli stessi regimi, e costruendo una rete di informatori e operativi in giro in tutto il Medio Oriente e nel mondo. Nel 2008, a Damasco fu ucciso con una bomba Imad Mughniyeh, mitologico capo militare di Hezbollah. Sempre in Siria, una vittima illustre di Dagan fu Mohammed Suleiman, ucciso il 1° agosto 2008 da un cecchino mentre era nella terrazza della sua villa al mare. Allora ricopriva l'incarico di capo della sicurezza di Bashar el Assad.
Una scelta, quella di omicidi e dei sabotaggi, molto diversa rispetto a quella sognata da alcuni esponenti politici, anche dello stesso Netanyahu, che lo confermò per un certo periodo a capo del Mossad ma che non condivideva con lui la visione negativa su un eventuale raid preventivo ai siti nucleari iraniani. “Un bombardamento non fermerà il progetto nucleare. Se bombardiamo, risolveremo tutti i problemi politici e alcuni di quelli economici dell’Iran portando l’intera popolazione a sostenere il regime”, disse una volta Dagan. E per ora, Netanyahu sembra avergli dato ragione, così come i suoi eredi alla guida dei servizi segreti.
Otto anni fa, Dagan morì per un cancro al fegato con il sogno di sconfiggere questo nemico anche con una difficilissimo trapianto organizzato in Bielorussia. Ma quanto sta succedendo a Beirut, nel sud del Libano e nella Valle della Beqaa non lascia spazio a interpretazioni: dietro questa guerra c'è anche la sua dottrina.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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