Nazionalismo e resilienza sono la spina dorsale russa. Ripartiti aggirando sanzioni e con l'economia di guerra

Un anno fa dopo le offensive ucraine su Kharkiv e Kherson tutti scommettevano sull'incapacità di Vladimir Putin di affrontare la pressione congiunta delle sanzioni economiche e delle forniture di armi occidentali

Nazionalismo e resilienza sono la spina dorsale russa. Ripartiti aggirando sanzioni e con l'economia di guerra
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È la guerra al contrario. Un anno fa dopo le offensive ucraine su Kharkiv e Kherson tutti scommettevano sull'incapacità di Vladimir Putin di affrontare la pressione congiunta delle sanzioni economiche e delle forniture di armi occidentali. Ma quella sommessa scordava molti fattori. Primo fra tutti il nazionalismo di un popolo che vive il sostegno di Usa ed Europa all'Ucraina come una minaccia alla propria identità. Per capirlo basta l'impennata degli indici di gradimento registrato da Levada, un istituto statistico russo considerato affidabile da molte istituzioni europee. Nonostante la svalutazione del rublo e l'incremento dei prezzi il gradimento di Putin è salito dal 77% del settembre 2022, il punto più basso dall'inizio della guerra, all'attuale 85%.

Percentuali incomprensibili se si scordano i due meriti fondamentali riconosciuti a Putin dai suoi. Il primo è aver cancellato gli anni bui di Eltsin garantendo un moderato, ma generale benessere. Il secondo è quello di contrapporsi a un Occidente responsabile, nella memoria collettiva, della caduta dell'Urss e di quanto seguì. Ma il nazionalismo poco potrebbe senza la naturale resilienza russa. Chi si chiede perché nessuno rinfacci al Cremlino le perdite subite in Ucraina scorda che i 27 milioni di morti della seconda guerra mondiale non intaccarono mai il potere di Stalin. Quest'attitudine alla resilienza spiega anche la capacità russa di giocare in difesa. Gli assedi di Pietroburgo e Stalingrado costituirono la premessa delle offensive contro l'invasore nazista. Le linee difensive disegnate a fine 2022 dal deposto generale Sergei Surovikin sono diventate la barriera contro cui si è schiantata l'offensiva ucraina della scorsa primavera e il piedistallo da cui è partita oggi l'avanzata su Avdiivka.

Ma la storia ci ricorda anche la capacità della Russia di dar vita a un'economia di guerra tanto autarchica quanto efficace. Oggi la Russia devolve oltre il 6% del suo Pil alla Difesa e le sue fabbriche sfornano - dati degli analisti inglesi del Royal United Services Institute - 125 carri armati al mese. Livelli improponibili per le aziende europee che ad oggi hanno fornito a Kiev solo 330mila del milione di proiettili da 155 millimetri promesso da Bruxelles a marzo 2023. Lo stesso vale per i soldati. Mentre l'Ucraina stenta a far fronte alle perdite, Mosca ha arruolato dal gennaio 2023 oltre 300mila nuove reclute.

Il fallimento più eclatante riguarda però le sanzioni destinate, nei piani di Usa e Ue, a piegare la Russia. Quei piani dimenticavano la polarizzazione mondiale e l'ormai comprovata incapacità degli Usa di imporsi come gendarme internazionale. In questo contesto paesi come Turchia, India, Emirati Arabi e Arabia Saudita, teoricamente alleati degli Usa, sono diventati i principali acquirenti o i rivenditori del petrolio e del gas russo. Questo - oltre ai consistenti acquisti cinesi - ha permesso alla Russia non solo di compensare le perdite causate dalle sanzioni, ma addirittura d'incrementare incassi ed esportazioni.

E così lo scorso ottobre la Russia ha fatturato 11,3 miliardi di dollari solo grazie alle vendite di petrolio registrando un incasso superiore a tutti quelli dei mesi precedenti il conflitto. Miliardi che - come notava il Wall Street Journal - hanno contribuito ad invertire il corso della guerra e a cancellare «il pensiero magico di una sconfitta russa».

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