Operazioni segrete, guerra psicologica e "via d'uscita": cosa c'è dietro il silenzio di Israele

Il blitz potrebbe essere stato condotto da agenti del Mossad in Iran, su cui deve essere mantenuto il massimo riserbo, oppure il silenzio giova alla guerra psicologica di Tel Aviv contro gli ayatollah. Vi è anche l'opzione della "via d'uscita" per Teheran

Operazioni segrete, guerra psicologica e "via d'uscita": cosa c'è dietro il silenzio di Israele
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Israele non ha ancora rivendicato l’attacco notturno contro le installazioni militari in Iran ed è potrebbe continuare a tacere, nonostante la sua responsabilità sia lampante. Il blitz è stato commentato in toni negativi da un ministro dello Stato ebraico, Itmar Ben-Gvir, e gli Stati Uniti hanno dichiarato di essere stati preallertati.

La motivazione di questo silenzio potrebbe essere legata alle modalità in cui si è svolto il raid. Vi è l’ipotesi, infatti, che essa sia stata portata a termine da agenti del Mossad presenti nel territorio della Repubblica islamica. Una versione da spy story decisamente credibile, considerando le capacità che i servizi israeliani hanno dimostrato nel corso degli anni. In questo caso, l’attacco sarebbe da considerare alla stregua di un’operazione segreta sui cui dettagli deve essere mantenuto il massimo riserbo per non mettere a rischio la vita delle persone coinvolte.

Un’altra spiegazione, la più probabile, potrebbe essere quella della guerra psicologica. Gli israeliani, infatti, avevano dichiarato che non avrebbero risposto immediatamente all’attacco dell’Iran del 13 aprile. Il premier Benjamin Netanyahu aveva anche scartato l’ipotesi di una ritorsione rapida dopo le pressioni del presidente americano Joe Biden. Vi erano anche dei dubbi sull’effettiva portata del raid e su quali obiettivi sarebbero finiti nel mirino delle Idf. In molti e probabilmente gli iraniani per primi si aspettavano di notare un qualche tipo di preparazione: movimenti di forze, aumento dell’attività aerea o la messa in stato di allerta dei sistemi difensivi in caso di risposta dei pasdaran.

L’attacco, invece, è stato portato a termine grazie all’utilizzo di piccoli droni comandanti da remoto. Certamente non le armi più potenti a disposizione degli israeliani, ma hanno dimostrato un punto centrale dei rapporti di forza nella regione: Tel Aviv non ha bisogno di fare grandi proclami di vendetta o schierare centinaia di dispositivi per colpire l’Iran. Esattamente come per il bombardamento di Damasco che ha provocato la reazione delle Repubblica islamica, la rivendicazione ufficiale non è necessaria, anzi toglierebbe incisività al “fattore paura” su cui lo Stato ebraico punta per mantenere sotto scacco gli ayatollah e indebolire il regime a livello interno.

Vi è anche una terza opzione, illustrata dal professore di storia del Medio Oriente Mier Litvak. "Credo che Israele abbia voluto inviare a Teheran il messaggio che non è scoraggiato dal recente attacco iraniano, che l'Iran è vulnerabile e che Israele dispone di una buona intelligence, e che quindi continuerà a impegnarsi per cercare di interrompere le forniture di armi avanzate a Hezbollah", ha spiegato il docente dell'Università di Tel Aviv.

"Altrettanto importante la portata e il modo con cui è stato condotto l'attacco, perché Israele ha anche inviato il messaggio di non essere interessato a un'escalation, dando all'Iran il modo di minimizzare l'attacco e il suo significato, in modo che Teheran non debba rispondere di nuovo". La decisione di continuare l'escalation, dunque, è ora nelle mani della Repubblica islamica.

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