Il piano di Donald: l'asse Tel Aviv-Riad (piegando Teheran)

I sauditi isolerebbero Hamas. In cambio il "sì" alla Palestina

Il piano di Donald: l'asse Tel Aviv-Riad (piegando Teheran)
00:00 00:00

Ci ha messo un po’, ma alla fine il ministro Bezalel Smotrich, leader della destra messianica, ha capito che l’obbiettivo di Donald Trump non era una semplice tregua. E che la guerra ad Hamas non sarebbe ripresa dopo lo scambio degli ostaggi come prometteva Bibi Netanyahu.

Da quel momento la tregua è ridiventata un’incognita e il premier israeliano, preoccupato per la tenuta del governo, ha incominciato a far retromarcia addossando ad Hamas la mancata accettazione di alcuni dettagli dell’intesa.

Ma la vera spada di Damocle sospesa sull’accordo sono gli obbiettivi a lungo termine di Donald Trump. Obbiettivi che - come fanno capire il suo emissario a Doha Steven Witkoff e Mike Waltz, prossimo Consigliere per la sicurezza - non prevedono solo una tregua di breve durata, ma intesa geopolitiche di lungo termine su Gaza e sullo Stato palestinese.

Il piano non è nuovo. È semplicemente la ripresa degli accordi di Abramo, a partire da quella normalizzazione dei rapporti tra Arabia Saudita e Israele bloccata dai massacri del 7 ottobre. Non a caso il rilancio dei piani prevede la definitiva messa fuori gioco di un Iran considerato da Trump, e da Netanyahu, il mandante degli attacchi che congelarono le intese tra Israele e sauditi previste di lì a pochi giorni. In quest’ottica l’obbiettivo di Trump è regalare al principe ereditario saudita Bin Salman e al premier israeliano la neutralizzazione dei piani nucleari iraniani considerati minaccia «numero uno» sia dall’Arabia Saudita, capofila del mondo sunnita, sia da Israele. Per riuscirci Trump ha due strade. La prima, e anche la preferita, è quella di un negoziato brutale accompagnato da minacce di intervento militare e misure sanzionatorie così dure da costringere Teheran ad accettare uno smantellamento controllato delle infrastrutture nucleari.

La seconda, su cui punta Netanyahu, è quella di raid aerei congiunti Usa-Israele. In entrambi i casi il regime sciita si ritroverebbe fuori dai giochi. In cambio Israele garantirebbe la nascita di uno stato palestinese mentre l’Arabia di Bin Salman ne diventerebbe il tutore politico ed economico.

Il ruolo saudita in questa visione è cruciale per entrambi i motivi. Come dimostrato dall’uccisione di Jamal Khashoggi, esponente della Fratellanza Musulmana, il regime saudita è uno dei più spietati nemici dell’organizzazione islamista da cui nasce Hamas.

Affidargli la tutela di uno Stato palestinese equivale a garantire ad Hamas un ruolo assolutamente marginale. E a contenere l’influenza del Qatar, grande sponsor di Hamas e della Fratellanza.

Ma significa anche spostare la questione dal piano politico a quello economico. Trasformando l’embrione di Stato palestinese in un satellite saudita, gestito d’intesa con Egitto, Emirati Arabi e altre potenze sunnite, Trump punta a fare della ricostruzione, a partire da Gaza, un ricco affare capace di annacquare le pretese ideologiche di chi punta alla contrapposizione con Israele.

Una pretesa a dir poco azzardata visto che gli accordi di Abramo, definiti nel primo mandato di Trump, prevedevano la cessione ad Israele del 30 per cento della Cisgiordania. Ma Mike Waltz e l’amministrazione Trump sembrano crederci. «Eliminiamo i terroristi - spiegava mercoledì il futuro Consigliere per la Sicurezza - e incominciamo a parlare di soluzioni politiche ed economiche.

Voglio che entro la fine del mandato di

Trump si parli di acqua, ferrovie, fibre ottiche e centri dati». Come dire regaliamo benessere, cancelliamo l’ideologia ed esportiamo il sogno americano.

In Europa ottanta anni fa funzionò. In Palestina è tutto da vedere.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica