La vittoria in Slovacchia del candidato filo-russo Robert Fico e la sua decisione di interrompere gli aiuti militari a Kiev non va sottovalutata. Come non si devono prendere sottogamba un'altra serie di segnali: la decisione del primo ministro polacco Morawiecki di non fornire più armi all'Ucraina; l'atteggiamento molto simile per non dire analogo dei Repubblicani americani; alcuni sondaggi che danno soccombente il presidente Biden nel confronto diretto con Donald Trump, che da buon populista ha annusato l'aria e ha impiegato meno di un attimo a sposare in pieno l'idea di un disimpegno Usa dalle vicende legate alla guerra che si combatte da più di un anno e mezzo nel cuore dell'Europa. Da noi, addirittura, sabato scorso Michele Santoro si è inventato un partito che dovrebbe presentarsi alle prossime elezioni europee con un unico punto programmatico: il no alla guerra in Ucraina che prevede come primo passo la fine dell'appoggio militare a Kiev.
C'è la fondata sensazione, insomma, che la crisi Ucraina sarà uno degli argomenti decisivi delle prossime campagne elettorali in Occidente: prima le elezioni europee, poi le presidenziali americane e nel contempo una serie di appuntamenti alle urne in diversi Paesi. Non sono pochi i candidati e i partiti che scommettono su un cambio di orientamento delle opinioni pubbliche occidentali, immaginando un combinato disposto tra una congiuntura economica complicata per non dire difficile e la voglia di gettarsi alle spalle, di fronte a questa nuova emergenza, la guerra. In fondo, almeno in Europa, conflitti che durano anni e anni sono roba del secolo scorso.
Un meccanismo perverso che ha funzionato in Slovacchia e che potrebbe ripetersi in scala più grande. In fondo è il limite delle democrazie: negli stati autoritari sono i despoti a decidere quando cominciano o finiscono le guerre; in democrazia, invece, com'è giusto, conta l'orientamento dei popoli specie in prossimità di elezioni. È un dato di fatto. Dall'antica Grecia in poi. E se nei primi dieci mesi del prossimo anno (a giugno con le elezioni europee e a novembre con la sessantesima corsa per la Casa Bianca) cambierà la posizione dell'Occidente sulla guerra, l'Ucraina rischia di restare sola o, comunque, sarà sicuramente più debole.
Ecco perché Zelensky, invece di preoccuparsi di riprendere qualche centinaio di metri di territorio nel Donbass o una fetta di spiaggia in Crimea pagata a caro sangue, dovrebbe immaginare un quadro di intese che assicurino al suo Paese l'indipendenza, l'autonomia e la libertà anche per il futuro.
L'unica possibilità - l'ho scritto e ripetuto in questi mesi - è l'ingresso dell'Ucraina nella Nato. Oggi, con il montare del desiderio di pace, visto che tutti sperano più di quanto sembri nella fine del conflitto, Zelensky ha le carte per pretendere questa garanzia: Kiev nell'Alleanza Atlantica in cambio della fine dell'ostilità. Un domani non è detto.
La questione investe anche chi ha a cuore il destino dell'Occidente: se davvero cambiasse l'orientamento delle opinioni pubbliche, se malauguratamente con il subentrare di nuovi governanti mutasse l'atteggiamento nei confronti dell'Ucraina, quella che fino adesso è stata una vittoria, perché ha dimostrato che la Nato è compatta ed è un baluardo verso le autocrazie, si trasformerebbe in una letale sconfitta.
Si rischierebbe un epilogo K=K, Kiev come Kabul, cioè il drammatico esito che ha portato l'Occidente, dopo venti anni di impegno in Afghanistan e un oceano di promesse e illusioni, a lasciare al suo destino un popolo, precipitandolo in un nuovo Medioevo, che ha avuto un'unica colpa: quella di avergli creduto. Un tradimento, un voltafaccia cinico e vile, che ancora pesa sulle nostre coscienze. E l'epilogo K=K rappresenterebbe di fatto, spiace dirlo, la pietra tombale sulla civiltà Occidentale.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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