Il mondiale di Mandela è un saluto alla folla. Tre minuti e venti secondi a muovere la mano col guanto, sorridente, in compagnia della moglie. L’inchino di Blatter di fronte a Madiba è l’ultima immagine prima di scomparire. Ciao Mandela e ciao Johannesburg. È finito un mondiale pubblicizzato come il risarcimento postumo dei mali che l’umanità ha provocato al Sudafrica. Il carrozzone del pallone smonta tende e parabole con l’animo sollevato perché alla fine quel momento che avrebbe dovuto essere il clou dell’evento c’è stato: quello di Mandela che rende omaggio a se stesso, al suo Paese, al suo continente. Dal 10 luglio 2006 ci hanno raccontato l’attesa del mondiale sudafricano, della sconfitta definitiva dell’Apartheid, della riconquista della coscienza collettiva dell’Africa e del mondo. Mandela è stato il simbolo. Poi è diventato un ologramma. Poi ancora il fantasma vivente aleggiante sull’evento: c’è o non c’è? L’inaugurazione l’ha persa per lutto, gli era rimasto questo giorno. Ieri, 11 luglio 2010. Tre minuti e venti secondi sono sufficienti a regalare al mondo la chiusura retorica che il mondo stesso aspettava: la Fifa aveva scelto il Sudafrica per questo, non per altro, per Madiba, per la sua storia, per la sua liberazione simbolica.
Non era il Mondiale di Mandela, ma quello del pallone. L’abbiamo scritto per convinzione un mese fa, perché il brodo politicamente corretto che ha accompagnato l’inizio della coppa del mondo era riuscito a trasformare in una passerella di buonismo internazionale. Non si poteva dare a un evento così leggero, un peso così insopportabile. L’avevano caricato di un’aspettativa che il pallone non avrebbe potuto soddisfare senza snaturare se stesso: il calcio sarà sempre il braciere dove ardono i nostri istinti, il nostro tifo, la nostra passione, le nostre follie. Non si poteva chiedere al calcio di rendersi sobriamente intellettuale in onore di un appuntamento che è per sua natura la massima espressione del circo pallonaro. Cercavamo soltanto gol, emozioni, esultanze.
Ecco, l’assenza di Mandela ha rosicchiato nei giorni le convinzioni extrapallonare, rimettendo al centro il gioco. Adesso che è finita, però, scopri che non è stato né il mondiale di Mandela, né quello del pallone. Perché la cosa più brutta vista in questi trenta giorni è stato il calcio. Ci siamo divertiti poco, abbiamo visto squadre modeste, abbiamo contato a fatica le emozioni, abbiamo visto palloni che sembrano il super Tele, abbiamo messo da parte una quantità inimmaginabile di errori dei portieri, abbiamo scosso la testa con l’imbarazzante incapacità degli arbitri. Il calcio ha perso. Ha vinto, invece, il Sudafrica. Non Mandela, né il frastuono che la sua presenza avrebbe creato al Mondiale.
Ha vinto un Paese maturo più di quanto ognuno di noi immaginasse. L’allarme sulla sicurezza s’è rivelato più che eccessivo: abbiamo visto serenità, tranquillità, neanche un accenno della violenza. Ci avevano raccontato di città da vivere col coprifuoco: abbiamo sentito e letto e visto quartieri normali, come i nostri; abbiamo persino scoperto che per un furto ai danni di tre giornalisti in Sudafrica si prendono 11 anni di carcere con un processo che dura mezza giornata.
Soprattutto c’è stata un’organizzazione perfetta, questa sì forse superiore alle migliori aspettative della Fifa che sembrava convinta solo all’apparenza delle capacità del comitato organizzatore sudafricano. È stato un mondiale brutto, modesto, a volte troppo diluito, ma bello per chi l’ha vissuto. Dalla tv è arrivato molto, ma non tutto.
È arrivato anche il peggio di una copertura televisiva a due velocità: entusiasmante, efficace e matura per Sky; banale e dozzinale per la Rai. Con la chiusura più mediocre del mondo: all’ingresso di Mandela nello stadio di Johannesburg, parte la pubblicità. Fuori tempo, fuori luogo. Fuori dal mondo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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