Potenza del marchio: per molti italiani la passata di pomodoro è semplicemente «la Mutti», con l'etichetta rossa dal sapore vintage e la bottiglia di vetro. Quattro generazioni hanno costruito il mito che oggi è nelle mani di Francesco Mutti, classe 1968, amministratore delegato del gruppo dal 1994, che ha trasformato un'azienda di famiglia nata 119 anni fa a Montechiarugolo, nella «food valley» di Parma, in una realtà internazionale dell'oro rosso capace di mantenere un forte legame con la propria terra.
Mutti, nominato l'anno scorso cavaliere del lavoro, è il re del pomodoro, una filiera che vale 2 miliardi di euro. Il primo ingrediente della sua ricetta è nei prodotti: 100 per cento pomodori italiani, coltivati a pieno campo al massimo a 130 chilometri dallo stabilimento di lavorazione, effettuata in giornata. Il secondo è una forte spinta all'innovazione e all'investimento nella qualità. Mentre molti imprenditori quadrano i conti tagliando le spese, Francesco Mutti continua a mettere soldi in azienda migliorando i macchinari, corrispondendo un prezzo più alto alla materia prima, premiando gli agricoltori più bravi e andando alla conquista del mondo: oggi è presente in 82 Paesi. Il quartier generale però è rimasto sulle colline alle spalle di Parma. Ai casali di inizio Ottocento si affiancano strutture in vetro e legno, simboli della capacità di tenere assieme il vecchio e il nuovo.
Come si trasforma un'azienda familiare in una multinazionale?
«Tenendo insieme il cosiddetto capitalismo 4.0 con un prodotto antico: il nostro lavoro è raccogliere questa bacca al momento della maturazione ottimale, nell'arco di 60 giorni, e preservarla nel migliore dei modi con l'unico ausilio di un minimo di calore. Come modello di business questo è veramente fuori dal tempo».
Quanti soldi investe ogni anno?
«Il 2017 è stato particolare perché abbiamo anche acquisito un nuovo opificio, per cui in totale abbiamo superato i 50 milioni di investimenti tecnici. Negli anni precedenti la media non si allontana dai 22-23 milioni. E sono investimenti che di fatto sono in funzione per 60-70 giorni l'anno, dal 20 luglio al 25 settembre».
Ne vale la pena?
«Non si può lavorare come fecero i pionieri e neppure come gli industriali degli anni Ottanta, che fecero efficienza riducendo i costi finché qualcuno non è andato a limare anche sulla qualità del prodotto. Noi abbiamo cambiato molti paradigmi di questo settore cominciando a investire sulla materia prima tanti punti percentuali in più rispetto alla media di settore».
Come si ottengono pomodori migliori?
«Si dà un maggior reddito e si incentiva il mondo agricolo in base a quantità e qualità del pomodoro conferito. È uno dei nostri profondi punti di forza. Ogni carico ha tra i 15 e 18 controlli. Verifichiamo per esempio la metodologia di raccolto e i tempi intercorsi tra la raccolta e l'ingresso nello stabilimento, che l'anno scorso è stato in media di 10 ore e mezzo. Ogni appezzamento è geolocalizzato».
Vige sempre la regola per la quale i vostri conferitori non devono essere troppo lontani?
«È a garanzia della freschezza. La distanza media dallo stabilimento è sui 130 chilometri, dagli agricoltori più prossimi, a qualche centinaio di metri da qui, fino al Ferrarese o l'Alessandrino. Cerchiamo comunque di coprire una zona abbastanza estesa perché quando piove la raccolta si ferma, e una vasta zona di fornitura ci consente, almeno in teoria, di non bloccare le macchine. Ogni giorno della stagione vale l'1,8% della produzione e l'esito dipende moltissimo dalle condizioni meteorologiche».
In due mesi lavorate tutti i pomodori che vi arrivano?
«Avviene il 100% della trasformazione e si ottiene circa l'80% del prodotto finito. Il resto, i cosiddetti ricettati come i sughi, vengono lavorati nel corso dell'inverno».
E negli altri 10 mesi pensate a come migliorare l'annata successiva.
«Finita la campagna i produttori si prendono qualche giorno per riprendere fiato, ma noi a fine ottobre dobbiamo avere già deciso gli investimenti da farsi perché poi in pochi mesi dobbiamo acquistare i nuovi macchinari e installarli in tempo per l'inizio della campagna successiva. C'è un percorso di crescita dimensionale e di evoluzione tecnologica. Solo la chiusura della fase in cui il pomodoro varca i cancelli, subisce il primo lavaggio, viene selezionato ed entra nello stabilimento ha richiesto un investimento di 10 milioni».
Il passaggio generazionale delle aziende è un nervo scoperto dell'imprenditoria italiana.
«Tema drammatico».
Da voi è andato tutto liscio?
«Quando ci siamo parlati con mio padre, l'azienda era piccola, fatturava 10-11 milioni di euro. Era il 1994 e il mercato stava cambiando. Per me anche noi dovevamo evolverci profondamente. Ho detto a mio padre che sarei entrato in azienda alle mie condizioni. Se ti chiami Mutti e vai a lavorare in Mutti, sei mesi dopo non puoi più fare nient'altro nella vita».
Una scommessa radicale.
«Ci sono stati momenti accesi, i confronti non sono mancati. Nei primi anni, quando abbiamo cominciato a investire sulla materia prima, spendevamo molto ma il riscontro non era immediato, non lo è mai. Poi però i risultati si sono visti. Oggi il fatturato, tra Italia ed estero, è di 278,2 milioni di euro».
Lei ha fatto entrare soci esterni nel capitale, tra cui uno dei colossi mondiali del settore alimentare.
«Sì, ma continuiamo a essere un'azienda familiare che controlla la maggioranza. La famiglia è una cosa bellissima capace di trasmettere valori formidabili, tra i quali una visione etica e di lungo termine rispetto a quella di un investitore».
Ci saranno anche dei limiti.
«Uno è inesorabile: non c'è scelta. I figli quelli sono, e comunque c'è la difficoltà a dire chi sia il predestinato».
Non è il suo caso...
«Già, sono figlio unico. Però ho sempre vissuto questo aspetto come un limite da superare, ho sempre cercato di trovare contaminazioni dal mondo esterno».
Per esempio?
«Il nostro presidente, Gioacchino Baldini, oggi è una persona esterna alla famiglia, scelta da me perché ha una visione ampia e profonda e un'esperienza eccezionale. È stato il più giovane direttore delle risorse umane di Fiat Auto: erano gli anni Settanta, tutti erano terrorizzati. Lui dice che, essendo giovane, ci ha pensato meno».
E i soci di minoranza?
«Il fondo Verlinvest fa capo agli azionisti di Ab-Invest, multinazionale del food and beverage, con una forte internazionalizzazione che ci aiuterà a penetrare nei mercati mondiali. Il confronto aiuta l'evoluzione del pensiero. Il rischio maggiore per un'azienda familiare è non avere confronti forti. Io devo essere il decisore ultimo ma devo circondarmi di persone che portano contributi, devo ascoltarli e se prendo una decisione diversa è molto saggio motivarne le ragioni».
L'internazionalizzazione è anche un modo per contrastare i cinesi?
«Il fenomeno del pomodoro cinese è decisamente sopravvalutato, lo dice un'azienda che da sempre fa 100% italiano. È esistito - ed esiste ancora, per carità -, ma è stato impattante fino al 2009-2011. La Cina è entrata nel settore alla fine degli anni Novanta in modo massiccio non avendo un prodotto rivendibile al proprio interno. La cucina cinese in genere non utilizza pomodoro trasformato».
Perché si sono gettati in questo business?
«Per presidiare l'area geografica dello Xinjang, nel Nordovest: Pechino decise di sviluppare alcuni settori merceologici ad alto impiego di manodopera tra cui quello del pomodoro. Fu un'operazione militare: la maggiore azienda di trasformazione è detenuta dall'esercito. Si presentarono sul mercato con un'aggressività tremenda sui prezzi, che però dopo 10 anni si rivelò insostenibile. Il picco di produzione si registrò tra il 2009 e il 2011».
Quanto pomodoro cinese arriva in Italia?
«La Cina oggi produce più o meno come l'Italia, i loro consumi interni sono in crescita e hanno preso alcuni mercati di riferimento tra cui l'Africa, prima legata al Sud Italia. Da noi entrano circa 30mila tonnellate, che non sono tante se paragonate ai 5 milioni di tonnellate di pomodoro fresco prodotti in Italia per uso industriale. Una fetta importante viene lavorata qui per essere riesportata in Africa senza pagare dazi. Il pomodoro cinese è un fenomeno molto mediatico. La legge sull'etichettatura obbligatoria è passata con il supporto importante dell'associazione di categoria. Lavorano con i cinesi 5 o 6 aziende contro le oltre 100 del settore».
Anni fa lei aveva commissionato uno studio scientifico per stabilire la provenienza del pomodoro.
«Nel periodo del picco la preoccupazione era forte: un prodotto di scarsa qualità a prezzo stracciato spacciato come made in Italy. La ricerca durò diversi anni e fu molto interessante: permetteva di identificare con grande precisione sia la provenienza cinese, sia quella italiana. Su campioni puri riusciva a trovare differenze addirittura tra pomodoro di Parma, Piacenza, Ferrara, Italia meridionale. Così facendo è stato possibile disporre di un metodo scientifico in grado di discriminare l'origine geografica del pomodoro lavorato».
Com'era possibile?
«La discriminante è la composizione del terreno e l'anzianità geologica stabilita calcolando il decadimento di alcuni isotopi, in particolare lo stronzio. Da allora il fenomeno cinese è andato fortemente riducendosi, per fortuna».
Sui mercati internazionali sentite la concorrenza cinese?
«Cresciamo ogni anno in Italia del 3-4%, all'estero del 20. Abbiamo appena aperto una sede negli Stati Uniti».
È la forza del made in Italy?
«Beh, è un simbolo forte, uno dei colori della bandiera legato ai nostri due piatti più classici, pasta e pizza. Ma un pomodoro di qualità è un prodotto sano, gustoso, facile da far mangiare ai bambini e versatile nel condire un piatto. La produzione italiana dà lavoro a decine di migliaia di persone e dovremmo valorizzarla con orgoglio, come elemento di identità non solo gastronomica ma anche culturale».
Come mai ha preso la responsabilità di Centromarca?
«A oggi sono stato designato come candidato alla presidenza dai saggi e dai colleghi, quindi siamo ancora un paio di passi indietro. Un imprenditore deve spendersi anche in un ruolo più pubblico. E Centromarca rispecchia molto la nostra cultura. Non mi piace il no logo, non è vero che tutti possono fare tutto e bene. La marca è un modo per identificare in modo chiaro a chi mi affido, è un insieme di valori che non conviene tradire».
Chi sono stati i suoi maestri?
«Ho imparato tanto da Ernesto Illy, laggiù tengo una macchina del suo caffè, persona di una caratura unica, così come da Riccardo Carelli, che per anni è stato amministratore delegato della Barilla, e da Baldini. Ho sempre cercato maestri perché sono un pessimo allievo e ho bisogno di molte ripetizioni. Le persone con cui un'azienda collabora costantemente aiutano a maturare un pensiero, a riflettere, ad avere uno sparring partner con cui confrontarsi e capire».
E al momento di decidere?
«Faccio mio il suggerimento di un altro mio maestro, don Antonio Moroni, fondatore della cattedra universitaria di ecologia: Confrontati con tutti, decidi da solo. Il percorso è faticoso ma avvincente, è bellissimo il lavoro che faccio. Il mestiere di imprenditore negli anni mi ha affascinato tantissimo, non avrei mai immaginato di fare un lavoro tanto ricco e non solo in termini economici ma intellettuali, come stimoli, complessità. È un pungolo per venire tutti i giorni sul banco di prova, e questa passione è condivisa da ogni imprenditore, una di quelle dipendenze dalle quali difficilmente riesci a uscire perché è un'energia vitale, e capacità di costruire».
Quanto conta il talento per un imprenditore?
«Senz'altro deve avere visione e passione, ma non bastano perché il contesto è fatto da un'economia che preme. Deve essere in grado di fare scelte, correre rischi, avere un progetto e sapere come perseguirlo. Deve circondarsi di persone capaci e riuscire a correggere costantemente il tiro. Deve formarsi, acquisire doti tecniche: nel dialogo con il manager deve sapere entrare nel merito. E deve anche avere fortuna».
Il
famoso «fattore C»?«Allora diciamo che l'imprenditore non deve avere sfortuna. Una volta qualcuno mi disse: Ho visto tante belle aziende andare male per colpi di sfortuna, mai una andare bene per colpi di fortuna».
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