«Ho fatto un danno... Abbiamo scoperto che erano confidenti della polizia...». A oltre quarant'anni di distanza da un delitto, un vago rimorso porta un uomo a sussurrare a un amico di esserne l'autore. Sorprendente, soprattutto se a parlare troppo è Pino Caminiti, esperto navigatore della mala e delle carceri, che quattro giorni fa ritorna in cella nella retata contro le curve violente di Inter e Milan. Mentre lo intercettano per le storie di stadio, i finanzieri del Gico lo sentono parlare di quel «battesimo» del 1992, e raccontare il rospo che ha in gola: «Ogni tanto mi ribalto nel letto, sono entrato in chiesa l'altro giorno, non lo so come mai. É una cosa che non riesco ancora a mandare giù». Così viene arrestato anche per omicidio. Roba da ergastolo, a differenza dei reati legati alla Curva.
Flashback. Pomeriggio del 17 ottobre 1992, il parroco del Don Orione, in via Strozzi, sente quattro colpi di pistola. Esce. Sul marciapiede, un uomo che rantola, dal collo e dalla pancia escono fiotti di sangue. Quando arriva in ospedale è ancora vivo. Quando muore lo identificano: Fausto Borgioli detto Fabrizio, una vita di reati alle spalle, amicizie importanti nella grande mala. Come Francis Turatello, «Faccia d'angelo».
L'inchiesta sulla morte di Borgioli non porta da nessuna parte, anche l'entusiasmo investigativo è scarso. Milano è investitata dal ciclone di Mani Pulite, il mondo sta cambiando, a chi interessa la tragica fine di un piccolo malvivente? Un tipo cui Borgioli doveva dei soldi viene indagato e archiviato. Il caso si raffredda.
A dare la chance alla giustizia di non lasciare impunito il delitto, arriva pochi anni dopo un «pentito» di alto livello: Giorgio Tocci, ex poliziotto, poi killer di mafia, poi collaborante di giustizia. Che racconta ai pm che l'ordine di far fuori Borgioli, che aveva il vizio di cantare con i poliziotti, era stato Salvatore Papandrea, uomo d'onore della 'ndrangheta milanese, che come sicario aveva designato per svezzarlo al sangue suo nipote Pino. Cioè l'allora ventitreenne Caminiti. Ma i riscontri non si trovano, la parola di Tocci non basta. Il fascicolo sulla morte di Borgioli finisce di nuovo in cantina.
E invece Tocci diceva la verità. A raccontarlo adesso è proprio lui, Caminiti, chiacchierando col suo amico Gherardo Zaccagni, milanese di Cernusco, la faccia pulita della gang di San Siro. Lo sfogo nasce per caso, un pomeriggio di noia, passando sotto la casa di Borgioli in via Montegani: «Poi ti spiegherò la storia di 'sta via qua, un giorno. Ha una storia importante, fratello. Questa mi ha sverginato a me, questa zona qua, lo sai? Ho fatto danni». Zaccagni un po' è curioso e un po' ha paura di quello che l'altro sta per dire, chiede e non chiede. Ma Caminiti proprio non riesce a stare zitto.
E alla prima occasione torna sul tema: «Quella via lì, sai, via Montegani... per me è stata una delle peggiori situazioni della mia vita». E ancora: «A me mi hanno accusato però sono stato sempre solo io.. però purtroppo lo sai che quello non va in prescrizione».Eh no. Niente prescrizione.
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