I bambini rompono, ma è giusto vietarli?

Cari lettori, il vostro poco avventuroso inviato oggi vi scrive da un comodo albergo pugliese, su una bellissima spiaggia vicino a Monopoli. Gente amabile, acqua pulita, cibo buono e saporito. Insomma, una meraviglia per una vacanza lunga o breve. Senonché - ogni paradiso ha il suo inferno - l’albergo è pieno di bambini. Strapieno: da due settimane a 12 anni pullula di vocine (ine? Sirene) petulanti, incessanti, assaltanti.
L’età più diffusa è anche la più rumorosa e incontenibile, quella che va dai tre ai cinque anni. È l’età di mio (...)
(...) figlio, appunto, e infatti è per lui che sono qui, con la mamma-vittima sacrificale che ha scelto con cura un hotel proprio con queste caratteristiche: per la gioia del pupo. Il quale infatti è felice, accudito anche da intrattenitori specializzati in giochi - e rumori - vari.
Dunque, confesso che qualche giorno nel villaggio scozzese di Firhall me lo farei: più volentieri che a New York o a Rio. L’affermazione stupirà quanti, fra le mie centinaia di migliaia di lettori, sono ormai abituati a sentirmi cantare la gioia della paternità e le lodi del mio erede. Ma è anche vero che gli unici bimbi che si amano - e si sopportano - sul serio sono i propri. Sebbene ormai più tollerante, appartengo tuttora a quella categoria umana che, in aereo o al ristorante, chiede di cambiare posto se nei paraggi c’è un neonato.
E però la compagnia di altri bambini è indispensabile ai piccoli, alla loro felicità e alla loro crescita. Per cui ecco frotte di bravi genitori, che magari si trovano antipaticissimi fra loro, cercarsi disperatamente perché gli angioletti possano socializzare. Capita purtroppo che, gli angioletti, per socializzare, moltiplichino e dilatino a dismisura ogni più irrazionale attività di disturbo dell’adulto. Lo schiamazzo è nulla rispetto al pianto di cui non si riuscirà mai a capire il motivo. Le liti furibonde intorno a qualsiasi risibile oggetto diventano il diapason del «MIO!!!» urlato e riurlato all’infinito. Ogni tre secondi vieni chiamato a fare da giudice in dispute per cui condanneresti volentieri alla gabbia delle tigri il figlio degli altri, ma devi mostrare equanimità suprema e amabile.
Poi ci sono le mamme, poverette, su cui grava il peso maggiore (lo riconosco), ma che sulla spiaggia diventano delle fabbrichette da ansia più di quanto lo siano solitamente. I loro disperati «attento!» e «attenzione!» rafficano come mitragliatrici in una guerriglia nella giungla, perché alle brave mamme sembra che pericoli simili alla giungla allignino sulle rive del pur mite Adriatico.
Un proverbio che dev’essere senz’altro saggio recita: «Figli piccoli problemi piccoli; figli grandi problemi grandi». Tralascio dunque le rogne da spiaggia degli adolescenti, dall’angoscia per il brufolo a quella del preservativo (ovvero: speriamo di poterlo mettere stasera).
Di certo è per tutto questo insieme di motivi che si fa un continuo, disperato ricorso ai nonni, chi ha la fortuna di averne a portata di mano. E i nonni, felici, accorrono a accudire il sangue del loro sangue: una, due, tre volte; uno, due, tre giorni. Ma poi è giusto e inevitabile che anche il nonno più esemplare dica che il figlio è tuo, che lui non ha l’età e che comunque ha altro da fare che rischiare l’infarto e l’udito.
Secondo me sono proprio i nonni che hanno deciso quei provvedimenti nel villaggio scozzese di Firhall, perché i nipoti sono tanto cari, sì, ma è bene che non perdano il contatto con i legittimi genitori e - soprattutto - ti lascino alle tue care abitudini, accumulate e ambite per decenni.


Certo, a Firhall, hanno esagerato quanto a limitazioni della libertà, non posso davvero condividere la loro decisione, peraltro già abbondantemente adottata e deprecata in molti odiosi condomini newyorkesi. Una ragionevole e razionale divisione degli spazi vitali dovrebbe bastare. Però, che voglia di farci un viaggetto a Firhall, se i nonni mi tenessero Nicola...
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