Paolo Armaroli
Piegandosi ai vari stati di necessità, la nostra storia patria si è intrecciata con due malepiante: il consociativismo e il trasformismo. Nel discorso pronunciato per l'apertura della terza legislatura (30 luglio 1849), Vittorio Emanuele II affermava: «È dell'essenza dei Governi rappresentativi che vi siano opinioni e partiti diversi; ma vi sono questioni talmente vitali, vi sono occasioni nelle quali è talmente urgente il pericolo della cosa pubblica, che soltanto dall'oblio delle passioni di parte e delle gare personali è possibile aspettare salute». E il 25 novembre 1883 a Napoli Zanardelli, dopo aver ricordato il «connubio» tra Cavour e Rattazzi, rilevava che «quando nel 1876 il Governo poté passare alla Sinistra, ciò avvenne perché una parte dei deputati della Destra... aveva ingrossato le file del nostro partito».
Cambi di casacca e salti della quaglia; da uno schieramento all'altro, dunque, da noi hanno rappresentato più la regola, che l'eccezione. Ma c'è una bella differenza tra ieri e oggi. Per circa un secolo e mezzo abbiamo avuto un centro contrapposto alle estreme. E il centro governativo si è allargato ora a questa ora a quella mezz'ala, lasciando le ali all'opposizione in servizio permanente effettivo. Nell'età del bipolarismo tutto è cambiato. Si sta o di qua o di là. Il centro è scomparso. Ma gli elettori di centro no. E con il loro voto fanno pendere la bilancia a favore dell'una o dell'altra coalizione.
Ciò nonostante, la «transumanza» si è verificata sia nella passata sia in questa legislatura. Senza i transfughi, dopo la caduta di Prodi nell'ottobre 1998, D'Alema non avrebbe potuto salire le scale di Palazzo Chigi. Quel D'Alema che aveva assicurato che mai e poi mai sarebbe diventato presidente del Consiglio se non dopo essere stato incoronato dal popolo sovrano. Una promessa da marinaio, la sua, visto come sono andate le cose. Anche adesso si registrano passaggi dal centrodestra al centrosinistra, sovente mascherati da un temporaneo parcheggio nel gruppo, misto dell'uno o dell'altro ramo del Parlamento. Ma i ribaltoni dei giorni nostri non sono giustificati dalla formazione di un qualsivoglia governo alle spalle degli elettori: un fenomeno che non sarà più possibile quando la riforma costituzionale entrerà in vigore. Invece avvengono perché previdenti uomini di centrodestra vedono nero e tentano di salvare il proprio collegio elettorale facendo atto di sottomissione al centrosinistra. Previdenti, si fa per dire. Perché se Berlusconi tornerà a vincere le elezioni, questi furbastri finiranno per sbattere i loro sederini d'oro per terra.
Una ricetta per evitare questi sconci ci sarebbe. Nella scorsa legislatura presentai alla Camera una proposta di legge costituzionale di modifica dell'articolo 67 della Costituzione: una disposizione, questa, che prevede un divieto di mandato imperativo ormai utilizzato per le più sporche manovre da uomini politici senza scrupoli. Questa mia ricetta, sottoscritta pure dall'amico Follini, prevedeva la decadenza dal mandato parlamentare per quelli che Fini ebbe soavemente a definire «puttani della politica». Se risultati vincitori in un collegio, sarebbero sostituiti da chi nelle elezioni suppletive si aggiudica il collegio uninominale. Altrimenti, verrebbero senz'altro sostituiti nelle circoscrizioni dai primi dei non eletti nella medesima lista.
Questa iniziativa legislativa purtroppo non andò in porto perché si trovò tra due fuochi. Il centrosinistra, beneficiario del trasformismo, naturalmente mise il pollice all'ingiù. Mentre i liberali tutti d'un pezzo gridarono alla partitocrazia.
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