da Washington
È difficile dire chi incontra più difficoltà: se George Bush che fra incontri e visite in Europa avrà in pochi giorni una buona dozzina di interlocutori in buona parte critici, oppure i suoi critici di casa, cioè i candidati democratici alla sua successione alla Casa Bianca, che sono pressappoco altrettanti e ancora più divisi, se possibile, dei partner europei. Lo confermano le «code» del dibattito ufficiale, contrassegnate da ancora più acrimonia, se possibile, del dibattito stesso, da cui è emerso una volta di più ma in termini più espliciti, non solo il contrasto fra le strategie fra gli aspiranti alla nomination del partito dopposizione per la Casa Bianca 2008 ma anche le contraddizioni e le contorsioni allinterno del discorso dei singoli candidati.
Ed è un segno del destino, emblematico del momento politico americano non di questi giorni ma di questi anni, che i maggiori contrasti abbiano avuto per tema lIrak. A conferma della non incoraggiante realtà che non basta una critica postuma a fare una linea politica alternativa. È normale che gli uomini (e, in questo caso le donne) che si propongono alla presidenza degli Usa abbiano anche allinterno del loro partito differenze tattiche sul futuro approccio a determinati problemi. Ma tra i democratici Usa stiamo andando oltre, perché essi dedicano una parte sempre maggiore del proprio tempo e delle proprie energie a rinfacciarsi le rispettive scelte e atteggiamenti del passato immediato e non solo immediato. Lo si è visto con chiarezza nel dibattito pubblico immediatamente successivo al voto del Congresso sul finanziamento delle operazioni militari.
Tra i candidati che sono anche senatori (i più e i più quotati) uno solo ha votato in favore di una misura che dovrebbe essere scontata: la continuata fornitura degli strumenti prima di tutto finanziari per alimentare una guerra in corso. Questa eccezione è Joe Biden del Delaware, considerato il maggiore esperto del gruppo in politica estera ma anche fra i meno quotati nelle scommesse per la Casa Bianca. Egli ha votato a favore ma sè affrettato a spiegare di essere in realtà contrario. I tre big della contesa hanno invece votato contro, ma ciò non li ha affatto uniti, anche perché due di essi avevano, quattro anni fa, votato a favore della autrorizzazione a Bush di attaccare lIrak.
Si sono pentiti, e questo è abbastanza normale perché la loro evoluzione in proposito è in sintonia con la maggioranza degli americani, ma John Edwards, senatore del North Carolina, ha trovato modo di attaccare la newyorkese Hillary Clinton e Barack Obama (dellIllinois) rei di non avere spiegato il perché e di avere tenuto in tasca la propria decisione fino al momento del voto. Una differenza di comportamento in realtà minima soprattutto in paragone con il ben maggiore contrasto fra i due al momento della scelta iniziale più importante: la Clinton votò in favore della guerra, Obama contro.
Laggressività polemica di Edwards mira da un lato ad approfondire il solco fra i due concorrenti e dallaltro a ritagliarsi una maggiore pubblicità che gli consenta di rimontare in una gara che lo vede tuttora al terzo posto. Hillary, in sostanza, ha detto prima sì alla guerra poi sì a un emendamento-capestro che ne avrebbe impedito la prosecuzione, infine sì, caduto questultimo, alla possibilità materiale di continuarla. Obama ha detto no e poi sì e poi sì, Edwards no e poi sì e poi no. La vera differenza è che questultimo ha finora centrato la propria campagna sullIrak mentre gli altri due preferiscono in forme diverse aggirare questa polemica per concentrarsi su altri temi di carattere interno ed economico. Biden è rimasto finora spiazzato e cerca di recuperare mostrandosi il meglio preparato a futuri doveri presidenziali.
Il risultato immediato è che i democratici hanno sì il vento nelle vele quando attaccano la politica estera di Bush ma appaiono più divisi dei loro concorrenti repubblicani, che pure sostengono la posizione più impopolare. È un paradosso in gran parte inevitabile ma inasprito dal tono delle polemiche.
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