I leader (quasi) per caso Ecco come la crisi cambia faccia al potere

Dal neo premier spagnolo ai candidati repubblicani Usa, ecco chi entra nella storia grazie alle circostanze

I leader (quasi) per caso Ecco come la crisi cambia faccia al potere

Mariano Rajoy è il nuovo simbolo dei leader per contesto. Vincono perché aspettano oppure perché si trovano dove serve. Il momento vale più delle idee: puoi essere il più bravo, il più intelligente, il più carismatico, ma può non bastare. Il caso sceglie più del curriculum. Lui è il meglio che la Spagna possa avere oggi, dopo che la stagione di Zapatero l’ha ridotta sul lastrico. Non è detto che sia il meglio in assoluto. Non è Aznar, per esempio. Lo sa lui, lo sanno i suoi, lo sanno gli altri. La dimostrazione è che per due volte la Spagna l’ha bocciato. La differenza tra il 2004, il 2008 e il 2011 non è lui: non ha cambiato idee, non ha modificato i punti base del programma, non ha neanche alterato il suo modo di porsi rispetto agli avversari. La differenza è una: il contesto. La Spagna avrebbe votato anche Topolino se si fosse presentato come candidato premier dei Popolari. Il momento diceva: alternativa rispetto ai socialisti. La faccia era quasi un dettaglio: il Pp ha scelto lui perché era il più affidabile, oltre che il leader del partito. Rajoy ha vinto: s’è preso la maggioranza più solida che la storia della democrazia spagnola ricordi e il merito è delle circostanze. Il che non sminuisce, né minimizza il suo successo. La Spagna l’ha portato alla Moncloa perché aveva bisogno di lui adesso. Non ieri, né domani. Ora. Eccolo il contesto. È la casualità che smette di essere casuale.

Il momento, sì. Quello esatto. Quello che viene costruito come ha fatto Rajoy o servito. Vale per molti, vale per Monti. Il premier avrebbe vinto le elezioni? Avrebbe sconfitto Berlusconi e Veltroni nel 2008? Potrebbe sconfiggere Alfano o Bersani nel 2013? Monti è presidente del Consiglio per coincidenza.

Si può anche entrare nella storia, così. Nick Clegg, in Gran Bretagna, è la prova plastica: i LibDem non hanno mai avuto e probabilmente mai avranno quello che hanno ottenuto alle ultime elezioni generali britanniche. Lui s’è ritrovato vicepremier per effetto di una crisi finanziaria che ha spazzato via il Labour gestito con i piedi da Gordon Brown, il quale Brown a sua volta avrebbe mai potuto diventare primo ministro in un momento diverso da quello in cui s’è concretizzato l’accordo con Tony Blair: Gordon aveva sempre perso, però riuscì a farsi promettere dall’ex amico e ex capo che a metà dell’ultimo mandato blairiano, il premier avrebbe ceduto il potere. Nel momento in cui accadde, Brown non aveva la minima forza elettorale per entrare a Downing Street: ha governato il Regno Unito per l’incrocio di una serie di eventi ricollegabili a quell’accordo con Tony.

Non basta, perché non c’è solo l’Europa. Non può. Il caso e il contesto sono la roulette elettorale che può cambiare la corsa per la Casa Bianca. Oggi i repubblicani americani hanno tre candidati potenzialmente vincenti. Potenzialmente. Mitt Romney, Rick Perry, Herman Cain: non c’è ne è uno che in condizioni normali avrebbe la minima possibilità di conquistare la nomination per contendere a Obama le presidenziali. In qualunque altro momento, il secondo e il terzo non sarebbero mai andati oltre la candidatura di maniera. Oggi sono ancora in corsa nonostante le clamorose gaffe. Romney, invece, quattro anni fa era governatore uscente del Massachusetts: poteva vantare i risultati importanti, poteva raccontare all’America la storia di un businessman di successo diventato un politico capace di vincere da repubblicano nella roccaforte democratica. Invece no: nel 2008 fu sbaragliato in fretta. Oggi, da perdente alle ultime primarie e con quattro anni in più è il più probabile avversario del presidente alle elezioni del 2012. Eccolo, di nuovo, il contesto.

Quello che porta Romney a temere la rimonta di Newt Gingrich che non è nemmeno ufficialmente candidato alle primarie, ma continua a crescere lo stesso nei sondaggi. Lui che nel periodo di massimo splendore politico, a metà degli anni Novanta, avrebbe teoricamente potuto prendersi l’America in fretta. No. Non era il suo tempo. Questo sì, forse.

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