I leali servitori dell'Italia abbandonati alle vendette

Licenziati gli afghani che affiancano i nostri soldati. Il loro grido d'aiuto: «Ci considerano spie degli infedeli. Se verremo lasciati indietro ben presto busseranno alle nostre case per tagliarci la testa»

I leali servitori dell'Italia abbandonati alle vendette

«Siamo stati al fianco delle forze italiane nei momenti più duri e nelle aree più pericolose dell'Afghanistan occidentale. Vi preghiamo di non lasciarci indietro in questo momento critico». L'accorato appello coinvolge una cinquantina di interpreti afghani, che temono di venire abbandonati al loro destino dagli italiani dopo avere rischiato la vita, per anni, con i nostri soldati. Nella lettera inviata il 10 dicembre al generale degli alpini Alberto Vezzoli, che a Herat comanda il contingente di 700 uomini, in via di smobilitazione, si annuncia il rischio mortale per gli interpreti. «Di recente sui social media sono state pubblicate e rilanciate minacce dei filo talebani contro chi ha sostenuto le forze della Coalizione e gli occidentali», denunciano i traduttori. E ricordano che uno di loro, Abdul Rasool Ghazizadeh, soprannominato Gennaro, «è stato ucciso sulla strada di casa». Gli interpreti temono che «il destino di ogni interprete sarà lo stesso se ci abbandonate».

Abdul Rasool Ghazizadeh, soprannominato Gennaro
Abdul Rasool Ghazizadeh, soprannominato Gennaro, ucciso sulla strada di casa dai talebani

Dal 28 novembre i collaboratori afghani hanno cominciato a ricevere le lettere di fine rapporto senza alcun accenno a un piano per garantire la loro sicurezza. Undici sono già stati mandati a casa. Un déjà vu del 2013 con la fine della prima parte della missione Nato e il ritorno in patria del grosso delle truppe italiane. Grazie a una campagna del Giornale l'allora ministro della Difesa, Roberta Pinotti, aveva fatto approvare un piano di protezione che ha portato in Italia 117 collaboratori afghani oltre ai loro familiari. Però 35, per assurde trappole burocratiche, sono stati abbandonati e cercano ancora oggi di lasciare l'Afghanistan per evitare rappresaglie. Adesso il «tradimento» di chi è stato al fianco delle nostre truppe diventa ancora più grave e disonorevole. Sulla scia degli americani anche le truppe italiane si preparano al ritiro totale o a ridurre al minimo la nostra presenza. I talebani sono decisi a tornare al potere e metteranno in pratica la vendetta più volte annunciata contro «i collaborazionisti degli infedeli». Un governo giallo-rosso che apre i porti a decine di migliaia di migranti illegali sembra non aver predisposto alcun piano per poche dozzine di interpreti afghani.

«Quando siamo finiti in un'imboscata dei talebani a Bala Murghab era un inferno di proiettili e razzi Rpg - racconta al Giornale uno degli interpreti a rischio - Il consigliere militare italiano mi ha ordinato: Dobbiamo uscire dal blindato per combattere spalla a spalla con il comandante afghano. E l'ho fatto rimanendo due ore in mezzo al fuoco».

Nelle lettere di «congedo» il generale Vezzoli scrive: «Con la presente le comunico espressamente la risoluzione del contratto». Il motivo ufficiale per il mancato rinnovo è legato a «esigenze di sicurezza dovute all'emergenza sanitaria Covid-19». Il generale conclude che «all'uopo si ringrazia per l'opera e il servizio prestato al personale militare del Contingente italiano». Neppure un cenno al piano di protezione per gli afghani, in parte applicato in passato con l'accoglienza in Italia. Gli interpreti vengono pagati 4,5 dollari l'ora per rischiare la pelle. Dopo 12 anni di pericoloso lavoro ricevono 5mila dollari e adesso rischiano di venire abbandonati. «La nostra arma più importante non erano i Lince, né i fucili, ma i ragazzi della mia batteria di interpreti. Le due dozzine di afghani ottimi conoscitori della lingua inglese e con un'educazione cosmopolita che facevano da ponte tra noi e le forze di sicurezza afghane», spiega al Giornale un ufficiale che è stato in missione in Afghanistan.

«Dopo un servizio così lungo e leale, vorremmo poter vivere da qualche parte in pace dove noi e le nostre famiglie non dovremmo preoccuparci di essere uccisi. Il destino degli interpreti licenziati non è chiaro. Vi preghiamo di non dimenticare i nostri sacrifici lasciando indietro chi, da oltre un decennio, si è sacrificato per sostenere le vostre missione», scrivono i traduttori al comando italiano di Herat. E rivelano che il predecessore di Vezzoli, il generale Enrico Barduani, «ci ha garantito che il governo italiano si impegna a non lasciarvi indietro». Al momento sta accadendo il contrario. Undici interpreti sono già stati congedati senza rete di protezione. Gli altri 38 sono stati divisi in due gruppi: il primo concluderà il contratto in febbraio e gli altri in aprile. Ventiquattro ore dopo avere ricevuto l'accorato appello, il generale Vezzoli incontra alcuni traduttori e garantisce che riferirà alle «più alte autorità» all'ambasciata italiana a Kabul. Il gabinetto del ministro della Difesa è informato, ma già dal 2016 sono stati tagliati fuori 35 interpreti. Uno di questi, Abbas Ahmadi di etnia hazara odiata dai talebani, continua a sperare: «Sono sconvolto che il governo italiano non mi abbia aiutato, dopo aver rischiato la vita con i vostri soldati. I talebani ci uccideranno se qualcuno non ci aiuta a uscire da questo inferno».

Il colonnello Emanuele Biondini, da poco in congedo, è stato in Afghanistan e sostiene: «Ci siamo fatti conoscere in tanti teatri come italiani brava gente. Un paese come il nostro, che a torto o a ragione si vanta di voler salvare ogni vita umana in pericolo, non può esimersi dal proteggere e salvare chi lo ha servito con lealtà».

Un interprete che ancora lavora con gli italiani conferma il terrore di rappresaglie con i talebani alle porte: «Ci considerano spie degli infedeli. Se verremo lasciati indietro ben presto busseranno alle nostre case per tagliarci la testa».

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