Partecipereste ad una corsa con i piedi legati, mentre i vostri avversari sfrecciano liberi e senza rispettare le regole del gioco? Come reagireste se scopriste che a imbrigliare voi e a mettere le ali ai vostri concorrenti è proprio l'arbitro della gara? Provate a chiederlo a migliaia di piccoli imprenditori che affrontano la gara a ostacoli del business: loro sanno benissimo cosa si prova. È un fronte sempre più vasto tra commercianti e gestori di pubblici esercizi: denunciano di essere vittime di «abusivismo legalizzato», stritolati da forme di «concorrenza sleale incoraggiate dallo Stato». Così una fetta di italiani esasperati da tasse e burocrazia intraprende una «guerra» tra vicini di isolato. Sotto accusa finiscono tutte quelle attività «parallele», permesse e protette da leggi statali, regionali o di enti locali, a scapito però di tutte le altre (la stragrande maggioranza).
Sagre, mercatini di fiori e dell'antiquariato, locali pubblici mascherati da circoli privati, farmers markets, agriturismi e affittacamere, fino all'ultima frontiera spalancatasi su internet con gli home restaurant e l' house sharing . Una galassia in espansione, una miriade di attività svincolate dalla morsa di imposte e di permessi che attanaglia le imprese concorrenti. A sentire i titolari di bar, ristoranti, hotel e ambulanti «tradizionali» sono troppe le realtà che godono di agevolazioni e favoritismi impropri, sul piano fiscale e burocratico. E che fanno affari d'oro. Tra commercio e turismo valgono qualcosa come 3 miliardi di euro all'anno, secondo le stime (persino prudenti) di Confesercenti. Se lo Stato si comporta da guardiano-esattore inflessibile con alcuni imprenditori, con altri si mostra fin troppo indulgente. E come se non bastasse, rinuncia a un miliardo di euro di tasse. Non esattamente spiccioli. Perciò le associazioni di categoria preparano dossier da presentare sui tavoli istituzionali, per chiedere pari opportunità e controlli più severi.
VENDESI DI TUTTO (ESENTASSE)
Mercatini dell'antiquariato, dell'usato o dedicati agli hobby più disparati, notti bianche commerciali, sagre e fiere di paese: ogni scusa è buona per allestire un bancone. E vendere qualsiasi cosa, quasi sempre senza obbligo di aprire partita Iva o di rilasciare scontrini. Tutte queste attività hanno generato nel 2014 un giro d'affari di 1,1 miliardi di euro con 334 milioni di gettito mancato. Poi ci sono i farmers markets, mercati di frutta e verdura «a km 0» allestiti dalle aziende agricole che fanno vendita diretta. Incentivati con l'obiettivo di abbattere i prezzi lungo la filiera green , questa formula consente di beneficiare di numerosi agevolazioni rispetto al reddito imponibile e al regime Iva applicato. I ricavi che derivano dall'attività di vendita diretta sono considerati parte del reddito agrario e godono degli stessi benefici. I venditori non sono tenuti a fare scontrini o fatture. Un trattamento particolare, unito a un indubbio successo tra i consumatori, che in pochi anni ha fatto proliferare oltre 10mila punti vendita tra farmers markets, fattorie e botteghe, con 48mila giornate di mercato all'anno e un fatturato stimato da Campagna Amica-Coldiretti in 800 milioni di euro, per giunta doppio rispetto a quello calcolato da Confesercenti (vedi grafico in pagina).
Basta farsi un giro tra i tendoni di una qualsiasi delle 42mila sagre enogastronomiche dello Stivale per capire dove girano i soldi, a dispetto di tanti ristoranti che restano mezzi vuoti. Che nel piatto ci sia porchetta, tartufo, polpette o fish and chips, cambia poco: le mangiate di strada «risolvono» la serata a residenti e turisti, perché permettono spesso di conoscere borghi caratteristici e di cenare spendendo non più di 10 euro a persona. Il boom è ufficiale: sette italiani su dieci questa estate hanno partecipato ad una sagra (sondaggio Coldiretti-Ixè), altrettanti lo faranno nella stagione autunnale che sta entrando nel vivo, dal Monferrato alla valle d'Itria. Manifestazioni di questo genere tengono in piedi le economie di intere province, eppure l'insofferenza degli esercizi tradizionali nei confronti di gazebo, cucine da campo e generatori di corrente sta superando il livello di guardia. Dal punto di vista fiscale, le sagre e le feste di paese rientrano sotto un regime agevolato. Gli introiti generati non concorrono alla formazione di reddito imponibile, né ai fini Iva né tantomeno di Irpef o Irap. Se a promuoverle è una pro loco, non possono avere assolutamente fini di lucro e i proventi raccolti dovrebbero essere reinvestiti nell'interesse della comunità. E invece troppo spesso in molti, è il caso dirlo, ci mangiano su...
PAESE CHE VAI, FURBETTI CHE TROVI
In Toscana, Umbria ed Emilia Romagna - in particolare - qualcuno s'è lasciato prendere un po' troppo dalla passione per lo gnocco fritto o il lardo di Colonnata. E della questione sono già stati investiti gli ispettori dell'Agenzia delle entrate. Le sagre non autorizzate, false o «improprie» a seconda della sfumatura di nero in cui ricadono, a leggere un rapporto della Fipe (Federazione italiana dei pubblici esercizi-Confcommercio), sarebbero più di 27mila con un fatturato complessivo stimato in circa 560 milioni di euro. Un gruzzoletto che entra direttamente nelle tasche dei padroni della salamella «selvaggia». In alcune località, poi, le sagre smettono di essere eventi eccezionali e diventano fissi, con strutture che non vengono rimosse per settimane o mesi. Per non parlare dei casi in cui nei piatti finiscono prodotti di dubbia origine, con scarsi o nulli controlli sanitari, oppure del tutto slegati dalle eccellenze del territorio. Con un doppio danno se si pensa alle specialità regionali Dop e Igp che andrebbero in teoria promosse. Soltanto in Lombardia, al vertice di questa speciale graduatoria, le sagre che non hanno nulla di autentico sarebbero più di 3.350 l'anno, per 69 milioni di euro di fatturato. Situazione molto simile in Toscana (2.400 eventi da 48 milioni) e in Veneto (2mila per 40 milioni di euro).
L'elenco di attività che sfruttano norme «amiche» del profitto è molto lungo. E qui spuntano i «soliti noti». Circoli ricreativi, centri sociali, associazioni private e culturali, onlus senza scopo di lucro solo sulla carta - ma che a tutti gli effetti funzionano come ristoranti, bar o discoteche, capaci di generare un volume d'affari di quasi un miliardo di euro l'anno. Una pacchia, se si considera che per questi ultimi non vige alcun obbligo di iscrizione alle Camere di commercio; niente Irap, niente Ires. Oltre a una valanga di agevolazioni contabili e amministrative. E quasi sempre gli scontrini restano invisibili.
I PRIVILEGIATI NON FINISCONO MAI
Ristoratori e albergatori tirano comunque nella mischia pure agriturismi e B&B, ovvero quelli che eludono le regole di occasionalità e di specificità dei prodotti, in grado di incamerare tutti insieme oltre 400 milioni di euro all'anno. Per potersi definire tali, va ricordato, gli agriturismi dovrebbero essere attività esercitate esclusivamente dagli imprenditori agricoli. Il reddito anche qui è considerato agricolo, e quindi ai fini fiscali la parte imponibile si calcola secondo un regime forfettario. Il marchio «agriturismo» sul mercato continua a tirare, e in troppi continuano a fregiarsene senza averne i requisiti e aggirando i controlli.
E che dire dei 30 milioni di euro portati a casa da guide turistiche improvvisate o abusive? Per loro l'Iva è una sigla sconosciuta, e se operano da autonomi pure l'Irap passa in cavalleria. Altri furbetti iscritti di diritto al club dei «miracolati» dal fisco, di questi tempi sempre più affollato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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