I romanzi capiscono l’operaio più della Fiom

L’operaio non ci crede più tanto alla politica, da almeno vent’anni. Non si fida neppure del sindacato. Non è un pregiudizio. È invidia, perché se tu stai alla catena di montaggio e quello arriva in giacca e ha piazzato l’amante alla segreteria della Regione ti girano le balle. Per due motivi: quello non lavora più e tu soprattutto non puoi permetterti un’amante. L’operaio, a differenza di quanto scriveva Tronti, non si è mai sentito massa. È un individuo. Fatica. Lavora. Ma si sente molto più classe media della figlia della professoressa che si lamenta all’alimentari. La figlia sopravvive da studentessa fuorisede con la angoscia di finire l’università, perché dopo vede solo buio. La professoressa va avanti con le carte revolving. A conti fatti non stanno meglio dell’operaio. Non sai al Nord. Lassù a Mirafiori. Ma a Cassino quando gli operai parlano di rivoluzione ma al Superenalotto. Qualcuno si aliena alle macchinette del bar e lì si beve il salario. C’è uno del reparto carrozzeria che ogni sera si chiude in casa e gioca on line al Texas Hold’em. Il materialismo storico è una scala servita.
L’operaio è in debito con la fortuna. È questo che la politica non ha capito. Sono allergici alla sfiga di certe litanie tardo Novecento. Al Nord, per esempio, si riconoscono di più nell’ottimismo gradasso dei leghisti. In vent’anni hanno ottenuto il federalismo. Due secoli di marxismo non sono neppure serviti a capire che la regola del futuro era il precariato. Gli operai si sono detti che, superenalotto a parte, è meglio tenersi il posto fisso. La fabbrica è un’archeologia del passato, fa schifo, otto ore non passano mai, ma è meglio del call center. E si guadagna di più. Poi ognuno la vive come può. Se poi la Fiom vuole gambizzare Marchionne con un esercito di pensionati faccia pure.
Gli scrittori certe cose le percepiscono prima. Quello che hanno fatto un po’ tutti negli ultimi anni è desacralizzare la classe operaia. Non era vergine. Non era la marcia del quarto stato. Non era metafisica. Hanno scarnificato quella visione puritana della fabbrica come cattedrale. Gli operai non sono preti e le operaie si vedono Uomini e donne. Mica tutte, ma molte sì. Silvia Avallone in Acciaio ha raccontato senza liturgia quei quartieri operai, dove «uomini e donne si fanno un’idea del mondo restandosene ai margini, credendo normale non andare in vacanza, non andare al cinema, non sfogliare il giornale e non leggere i libri». Ecco, da quei quartieri uno ci vuole uscire. E nei dieci minuti di pausa la fuga può essere una tirata di coca. Non per fare come i ricchi, ma perché la trovi a buon mercato. E se sei giovane, bella e pure un po’ lesbica puoi parcheggiare la tua giovinezza sul palcoscenico del Gilda, un night dove ballerai nuda e ti concederai alle voglie represse del fine turno. Questo è acciaio e forse è normale che gli operai di Piombino non l’abbiano presa bene. Questa miseria non la vogliono neppure sognare. Gianfranco Manfredi in Quarto Oggiaro Story già aveva capito che la fregatura del marxismo incarnato è che parla troppo di ideali e poco di soldi. «A noi piacciono i film western, il rock, i fumetti più illogici possibili e il comunismo lo pensiamo come una cosa molto lussuosa, dove nessuno starà in piedi su una zolla di terra a sudare piscia e sangue». Anche la Fiom non parla mai di soldi. Chissà perché? Vi ricordate cosa scriveva Tom Wolfe nella Bestia umana? «Nel 2000, il termine classe operaia era ormai superato negli Stati Uniti, e proletariato era così obsoleto da risultare familiare soltanto a un numero esiguo di vecchi e avviliti accademici marxisti con i peli sulle orecchie. L’elettricista medio, il tecnico dell’aria condizionata, o quello che ripara i sistemi di allarme prima di cena si sedeva sulla terrazza di un hotel panoramico insieme alla terza moglie, indossando una camicia alla Ricky Martin aperta fino allo sterno».
Poi è arrivata la crisi. Ma quando leggi certi discorsi post proletari ti viene il sospetto che la cultura di sinistra sia quasi contenta di questa maledetta crisi. Hanno pensato? Non è che le nostre vecchie parole ora tornano utili? Si sono specializzati nell’apocalisse, il solo immaginarla ora non li fa sentire obsoleti. Ma è appunto solo una sensazione. Quasi una nostalgia. Com’era bello il passato. Sì, proprio come in La banda dei brocchi di Jonathan Coe. Quel finale. «Vieni con me, Patrick. Torniamo indietro nel tempo, sino in fondo, sino all’inizio. Torniamo a un paese che forse non riconosceremmo. L’inghilterra del 1973». «Secondo te era proprio così diversa?». «Completamente. Pensaci. Un mondo senza i cellulari, Mtv, la Playstation, nemmeno il fax.

Un mondo che non ha mai sentito parlare della principessa Diana o di Tony Blair. A quei tempi in tv c’erano solo due canali, Patrick. E i sindacati erano tanto potenti che se volevano potevano bloccarne uno per una serata intera. A volte la gente doveva fare a meno dell’elettricità. Immagina!».

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