I sermoni da bar del signor Censis

La vita e le opinioni di un filosofo di paese. Il destino di Giuseppe De Rita è andare oltre i numeri e le statistiche. Ogni anno il Censis ci racconta come sta l’Italia. Ma i professionisti del giornalismo non si accontentano più di un termometro. Hanno bisogno di qualcuno che gli racconti una storia, con delle parole chiave da far rimbalzare nei titoli, come se la sociologia fosse la sottomarca di un grande romanzo (...)
(...) popolare. È per questo che il professor De Rita si ingegna. Tira fuori la mucillagine e il pantano, l’individualismo atomizzato e l’indistinto. Non è che dietro queste parole ci sia il vuoto. De Rita non inganna. Solo che le sue analisi stanno diventando una sorta di predica domenicale, un sermone, che ognuno piega ai suoi interessi politici. «Come mi dice sempre bonariamente Giuliano Amato, non ho la cultura della Torre Eiffel. Vedo le cose terra terra». Ma forse questa è la maledizione dei sociologi. Fatto sta che i dati del Censis passano per discorsi da bar. Alla fine quello che resta il giorno dopo è il ritratto di un’Italia dove tutto va male e la colpa è di Berlusconi. Naturalmente De Rita e il Censis non hanno detto esattamente questo.
A sentire gli apocalittici questa è una terra senza misericordia. Per salvarla bisogna estirpare il principio di tutti i mali. L’operazione è semplice, basta togliere il Cavaliere e metterci Fini, Vendola o Montezemolo. Il Censis ti dice che non serve sacrificare il capro espiatorio, ma è arrivato il momento di fare i conti con noi stessi. Partiamo dalle cose positive. Il fantasma della crisi a guardarlo in faccia è meno brutto di quanto pensassimo. L’Italia bene o male ha resistito. Questo non significa che non ci siamo fatti male. Il tasso di crescita dell’economia è più basso rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna. A pagare sono quasi esclusivamente i giovani, emarginati o cacciati dal mercato del lavoro. La cultura anticapitalista può purtroppo festeggiare: il lavoro autonomo è in grossa difficoltà. Le piccole imprese stanno chiudendo. Il calo è del 7,6 in cinque anni: dal 2004 al 2009. Gli artigiani e i commercianti non ce la fanno più e non è solo una questione economica. C’è anche la stanchezza di chi tira avanti da anni in solitudine e si sente disprezzato e infamato. Gli intellettuali italiani hanno sempre coccolato gli statali e disprezzato i bottegai. È una questione culturale prima che politica. Stiamo pagando il prezzo di questo. Il risultato è che potrebbe saltare quella borghesia imprenditoriale che rischia e fatica senza garanzie. Il Censis scrive poi che l’Italia del 2010 assomiglia a un’ameba. È senza nerbo e rassegnata. De Rita, con spirito cattolico, spiega che è l’approdo finale del soggettivismo etico. Molti diranno che è il fallimento del «ghe pensi mi». Il discorso è un po’ più complesso. De Rita dice che Berlusconi è un’icona di quel percorso cominciato 50 anni fa e che ora ha esaurito la sua potenza. Berlusconi lo ha cavalcato ma non inventato. E qui arriva il bello. Chi lo avrebbe inventato? De Rita dixit: «Tutto ha inizio con Don Milani e l’obiezione di coscienza. Ci voleva una autorità morale come la sua per dire che la norma dello Stato è meno importante della coscienza. È da lì che comincia la stagione del soggettivismo etico. Un’avventura che prende tre strade. La libertà dei diritti civili. Prima di allora non dovevi divorziare, abortire, dovevi fare il militare e obbedire allo Stato. La soggettività economica: ciascuno ha voluto essere padrone della propria vita, non vado sotto padrone, mi metto in proprio. È il boom delle imprese. La libertà di essere se stessi: il marito è mio e lo cambio se voglio, il peccato è mio e me lo gestisco io». Secondo De Rita questa stagione è finita. L’orizzonte è quello di un neomoralismo, che rischia di diventare puritano e bacchettone. Questo il Censis non lo dice, ma parla di recupero dell’auctoritas. È una questione di parole. Forse c’è una via di mezzo. Questa Italia tende a scaricare le colpe sugli altri e non prendersi mai responsabilità individuali. Ma l’esercito di predicatori sta togliendo slancio a questo paese. È un’Italia avvilita e mediocre. Troppo paurosa. Stanca e in cerca di scuse.

Sta affogando nel pessimismo dei Savonarola. De Rita scrive che la soluzione è tornare a «desiderare». «È questa la virtù civile necessaria per riattivare una società troppo appagata e appiattita». Sorpresa. La ricetta è ritrovare lo spirito del capitalismo.

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