I violenti per vocazione

I violenti per vocazione

Parigi brucia? L’Europa civile e inquieta trattiene il fiato e s’interroga, a mano a mano che si contabilizzano la violenza e il fuoco del malessere delle banlieue, sulle strategie necessarie per garantire sicurezza nella libertà e nella giustizia. C’è dolore, timore. Un disagio palpabile mentre si discute di integrazioni mancate, di nuovi ghetti che nessuno avrebbe immaginato e voluto, di minacce che risorgono dalle carcasse delle auto in fiamme. Soltanto pochi reduci non riescono a contenere una certa maligna soddisfazione per quanto sta accadendo, sono i reduci del Sessantotto violento e degli «anni di piombo». Ne citiamo due: Mario Capanna, «casseur» minore che non è stato formidabile in nessun anno, e Toni Negri, che ha conquistato una luciferina dignità di cattivo maestro in aeterno. Il primo, in un’intervista dei giorni scorsi, ha affermato che la contrapposizione con il blocco capitalista-imperialista si riaccende, anzi continua, con un avvicendamento dei primi attori, dato che agli studenti e ai lavoratori delle lotte sessantottine si sono sostituiti immigrati, diseredati, emarginati.
Più articolata e ideologicamente nutrita dei necessari apporti marxistici la lunga intervista al teorico dell’insurrezionalismo, che La Stampa ha pubblicato col titolo: «Toni Negri: ecco finalmente la Rivolta. Ma per la Rivoluzione c’è tempo».
Per il professore non si deve parlare di «bande» che operano nelle banlieue, né di jacquerie, così come non si deve dare troppa importanza all’elemento etnico, al fallimento dell’integrazione alla francese per il lascito islamico del suo colonialismo. No, quella in corso a Parigi è una rivolta, la Rivolta: «...potrei anche dire insurrezione – afferma Negri – se intendiamo il termine in un’accezione tenue». E qual è la causa vera della rivolta? Negri non ha dubbi: la crisi del modello industriale fordista, la mancata risposta a questa crisi, il fallimento delle politiche neoliberali.
L’analisi è fredda, professorale, ma il cattivo maestro non nasconde la sua simpatia per gli «insorti», né lo turba che questa classificazione possa dar loro una dignità di combattenti, anche se il loro eroismo finora li ha spinti a terrorizzare la povera gente di quartieri infelici.
Il sangue? Le violenze? «Non mi turba – dice Negri – che in un incendio così ci siano solo 2 morti. E quanti ragazzi uccisi o feriti?».
La violenza degli insorti sarebbe soltanto difensiva e quindi dovrebbe essere giustificata. Perché, è sempre il professore che parla, quando si cerca una via di fuga da questa società in crisi, occorre avere delle retroguardie «che usino le armi, ma per difendersi».
L’intervista di Negri è a tratti misurata, cauta: il teorico dell’insurrezionalismo trova pure modo di dire che Prodi ha esagerato nell’immaginare in Italia periferie in fiamme, anche perché non sa nulla delle periferie.
Ma le cautele e le attenzioni lessicali non nascondono una realtà di fondo: gli sconfitti degli anni di piombo e della «contestazione continua» ritengono che la partita, quella che ritenevano la loro partita rivoluzionaria, sia ripresa dopo essere stata temporaneamente sospesa.
Sappiamo tutti che la storia non è finita, ma certi reduci sono sempre pronti a scorgere nel grembo degli avvenimenti presenti l’embrione di una contrapposizione insanabile fra i rivoluzionari eterni e il capitalismo cangiante, oggi nella sua incarnazione «fordista». Contrapposizione che può anche sfociare nella lotta armata. Qualsiasi scintilla può essere colta e usata: oggi l’angoscia distruttiva di certe frange d’immigrati, ieri le inquietudini di un proletariato troppo giovane e già declinante, domani il grido di dolore degli antipatici e dei brutti, chissà.
La verità è che gli sconfitti di ieri vogliono convincersi e convincerci che comunque avevano ragione anche quando avevano torto.
Qual è il pericolo? Che le giustificazioni offerte dalle discettazioni teoriche possano tradursi, nella pratica della politica estremistica, in slogan brevi, violenti, suggestivi. C’è il rischio che i terroristi virtuali, gli aspiranti rivoluzionari di professione, soffino sul fuoco di Parigi per farlo divampare anche altrove. E una cultura pronta alle amnistie sociologicamente motivate forse applaudirebbe sia i cattivi maestri che i pessimi allievi.


Non bisogna mai sottovalutare i violenti per vocazione: non dimentichiamo che una esponente delle nuove Br qualche anno fa in tribunale lesse un proclama in cui auspicava la saldatura fra la lotta antimperialistica e l’azione del terrorismo jihadista.
La storia non è finita, ma dov’è scritto che debba tornare indietro?

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