Ho rimandato per giorni il momento di recensire l'ultimo libro di Silvio Perrella, Giùnapoli (editore Neri Pozza, 186 pagine, 15 euro), finché non mi sono trovata per una breve vacanza a Nerano, dove inizia la costiera amalfitana. Lì, sulla punta della penisola sorrentina, Capri è a un passo, e dal versante di Castellammare si vede tutto l'arco del golfo: il Vesuvio, i pini, il mare, le luci di notte. Nonostante quasi tutti gli autori napoletani del Novecento si siano accaniti nel rovesciare l'amato-odiato topos del paesaggio incantato, prendendo accuratamente le distanze dalla classica iconografia partenopea, è difficile non essere turbati da tanta ingombrante bellezza. Mentre guardavo Napoli, pensavo che magari Perrella stava guardando a sua volta verso di me con un binocolo, come racconta nel libro: «Appare l'area di Castellammare. Dentro ai vetri binoculari è così sterminata da far paura, piena zeppa di case, luci, strade, mare, cantieri navali e persone persone persone. Densità abitativa enorme. (...) Quando guardo con il binocolo, resisto per un po, poi devo smettere, il cuore si spaura, non sopporto la quantità di cose che gli occhi devono ingurgitare».
Anche dall'altro capo del golfo c'è lo stesso effetto di troppo pieno, di una densità che ti può inghiottire se ti avvicini troppo, se ti immergi. Perrella si è immerso, pure se l'incontro con la città, per lui straniero (visibilmente straniero: alto, biondo, tranquillo) è stato inizialmente uno scontro, a base di «chi sì, che vuò, comme te sì ppermìso...». Circondato da coetanei ostili e aggressivi, che lo avvisano di aver oltrepassato un confine proibito, il ragazzino appena arrivato, nel corpo a corpo con la città, viene immediatamente a contatto con il suo lato oscuro e minaccioso. Napoli è un altrove anche per chi ci abita; nei quartieri periferici si dice «andiamo giù Napoli», rendendo inconsapevole omaggio al mito della città adagiata sul mare, o confessando la propria estraneità intimidita, incapace di vera cittadinanza, e di un possesso meno brutale. Tanti se ne vanno. Lo constatava, amaro, lo scrittore Luigi Compagnone, vedendo cinquant'anni fa i suoi amici, un'intera generazione di intellettuali napoletani, che emigravano a Roma o Milano. E Perrella ancora lo sottolinea, raccontando di quelli che non sopportano Napoli a lungo, che sperano e poi disperano e infine abbandonano, lasciando la città bella e impossibile. «Quando per strada vedo qualcuno con la valigia, mi chiedo sempre se stia scappando».
Un altro napoletano, Erri De Luca, nel suo ultimo libro si definisce «napòlide», come se essere intellettuali a Napoli potesse aprire solo due destini: o quello di «scrittore napoletano», per sempre inchiodato a una tradizione, una lingua e una retorica, o quella di fuggiasco, di rinnegato che rifiuta le radici. Forse Perrella è ostinatamente rimasto, in un avvicinamento fatto di piccoli passi, proprio perché napoletano non è, perché ha passato anni ad esplorare la diversità napoletana finché non è riuscito a narrarla in proprio. Il suo racconto non prende mai di petto la realtà, e nemmeno la descrive in presa diretta; come se qualcuno, offeso, gli potesse ancora dire: «chi sì, che vuò, comme te sì permiso...».
Il lettore scopre la mutevole geografia cittadina seguendo i passi dell'autore e i suoi incontri. Nel libro ci sono, in modo discreto, le passioni letterarie di Perrella, qualche indizio biografico, e i suoi amici: naturalmente Raffaele La Capria, e poi Gustaw Herling, Antonio Franchini, Ermanno Rea, Fabrizia Ramondino, Sergio De Santis, Tullio Pironti e altri meno noti. Il fascino di queste pagine piane, che scorrono come una lunga conversazione amichevole, è che Napoli emerge nella insolita qualità di città vissuta; vissuta nella quotidianità da un intellettuale non autoctono, che l'ha scelta, vi è penetrato con qualche cautela, e la ama. Non a caso il libro si conclude nel ricordo di Herling, scrittore polacco e marito di una delle figlie di Croce: «Una volta qualcuno aveva sostenuto che Herling più che amare Napoli ci si era abituato.
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