Iniziano le Olimpiadi e la Cina nasconde Mao

La festa di apertura rinnega i simboli del comunismo, sostituiti dalla modernità: cerimonia spettacolare, ma priva di emozione. C'è una Pechino che vive le Olimpiadi lontano dai riflettori

Iniziano le Olimpiadi e la Cina nasconde Mao

Pechino - Quella bambina vestita di rosso che correva spensierata, sorridente, allegra, sospesa nel cielo come una farfalla, con le sue gambette che pedalavano in direzione del Padiglione della Pace Imperiale: che emolliente, rassicurante, azzeccata metafora per raccontare la Cina d'oggidì. Così trendy, così febbrilmente moderna. Che inimmaginabile differenza, soprattutto, tra le stamburanti, psichedeliche, computerizzate scene di massa alla Cecil B. De Mille di questa ventinovesima, patinata Olimpiade, e il Paese di una volta. Ve lo ricordate? Era un posto plumbeo, popolato di gente con le pezze al sedere, la bici come unico mezzo di locomozione e una malinconica, severa, smorta divisa che andava bene per i giorni feriali e per i festivi. Un Paese popolato da feroci bacchettoni, da inesorabili sepolcri imbiancati che per il solo fatto di portare gli occhiali, per dire, vi avrebbero fatto passare il più brutto quarto d'ora della vostra vita. Vi avrebbero accusato di essere un «borghese», un antirivoluzionario, un nemico del popolo, una merdaccia. Vi avrebbero appeso un cartello al collo pieno di ingiurie, calcato sul capo un cappello di carta, come quello imposto a Pinocchio, e sareste spariti dal consesso dei vivi.

Erano convinti, il Grande Timoniere e i sopracciò del Partito Comunista che gli tenevano bordone, di compiere un Grande Balzo in Avanti convincendo milioni di ignoranti fanatici che per aumentare la produzione di acciaio bastava costruire un piccolo altoforno dietro casa. E anche chi intuiva che era una spaventosa fesseria, dovette gettare nelle fornaci pentole, padelle, maniglie, carriole e tenaglie. Nel ruolo di sovrintendenti al delirio, le mitiche Guardie Rosse che illanguidivano Alberto Moravia e Simone De Beauvoir. Anche allora, non avevano inventato niente, i cinesi. Avevano soltanto copiato (come avrebbero fatto di lì a poco con i frigoriferi e le borsette di Gucci) un'ideologia che aveva i suoi profeti, e i suoi grandi discepoli in Marx, Engels, Lenin, Stalin. Tutti forestieri.

Non stiamo parlando di un'era remota. Tutto ciò accadeva una trentina d'anni fa. Di tutto questo, nella funambolica, hollywoodiana inaugurazione di ieri sera, non si è vista traccia. La Cina del Ventunesimo secolo, quella della modernità globalizzata, cercava un grande palcoscenico; un teatro planetario sul quale mettere in scena, ma senza parere, la sua definitiva abiura, la sua ferma decisione di rinnegare un passato che sottopelle è ancora vivo e bruciante. Le Olimpiadi sono perfette, per la bisogna.

Questo era l'obiettivo, centrato egregiamente, del maestoso spettacolo commissionato dal regime al regista Zhang Yimou: saltare a piè pari il «secolo degli errori», il Novecento, mostrando il volto accattivante, pacifico, amichevole di una Cina sospesa tra un passato mitico - quello di Confucio e delle dinastie Han, Tang, Song, Ming, Qing - che si è finalmente liberata dalle croste del comunismo. È la Cina che pur mantenendo intatta la struttura, le linee di potere, il carattere illiberale, poliziesco, delatorio del vecchio regime non ha più nulla da spartire con Mao Zedong e il suo libretto rosso, con Ciu En lai, la Banda dei Quattro e Deng Xiao Ping, altro grande «convitato di pietra». Che ebbe sì l'idea (e la faccia tosta) di dichiarare che «arricchirsi è glorioso», come già sapevano i protestanti di Boston nel 1700. Ma si rese poi responsabile di quella corbelleria in piazza Tienanmen, 4 giugno 1989, facendo ammazzare alcune centinaia di ragazzi e ragazze (ricordate quello con le borse della spesa fermo davanti ai carri armati?) che da almeno dieci anni, non avendo apprezzato le altre, invocavano la «quinta modernizzazione»: la democrazia. Quella andata in scena ieri sera nell'avveniristico stadio che sembra pensato da un merlo è la Cina che corre a gambe levate verso un capitalismo sgangherato e cafone, dove contano solo le palanche e chi se ne frega delle migliaia di «compagni» che ogni anno ci rimettono la ghirba lavorando nelle miniere di carbone o su una impalcatura a 90 metri d'altezza. A Pechino, ieri sera, il termometro era fisso sui 32 gradi. Umidità relativa, 80 per cento abbondante. Temperatura percepita, 43 gradi. Ma l'atmosfera rovente dello stadio sembrava che avesse un effetto balsamico sul volto soffuso di goduria del presidente Hu Jintao. Si girava a destra e a sinistra, verso Bush e Putin e gli altri dignitari venuti a piegare il ginocchio davanti a lui, con l'aria benedicente di un Padre Pio di gesso ormeggiato sul lunotto di un'utilitaria.

Dev'essere parso ineducato, ai 90 rappresentanti di altrettanti Paesi del pianeta qui convenuti, disturbare il manovratore con le solite menate dei diritti umani. Come ha fatto sapere ancora l'altro ieri, il regime se ne fotte se non ha l'alito impeccabile. Avete visto, ieri sera, quel mondo scintillante che calava sullo stadio, circondato da una moltitudine con gli occhi a mandorla che lo cingeva d'assedio? La Cina, che produce a basso costo, tiene l'America per la gola, come un tacchino a Thanksgiving. A questo faceva pensare, quella scena.

Lo stesso dicasi per l'Europa, come sa perfino il principe delle Asturie, don Filippo di Borbone, e la sua signora, Letizia Ortiz, presenti allo show. Sicché, ora che la Cina è stata ammessa a Corte, i Giochi possono cominciare.

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