Il problema siamo noi, non i negozi aperti

Il cardinale Scola: "Più euilibrio tra impegno e famiglia". La domenica al lavoro divide l'Italia

Il problema siamo noi, non i negozi aperti

Ricordati di santificare le feste: più che un comandamento, ormai risuona come feroce anatema contro le nuove abitudini del consumismo globalizzato. Però diciamolo senza tanti tremori: sul tema pratico dei negozi aperti di domenica entrambe le controparti hanno buone ragioni. Ne hanno i commercianti, che in questo furioso periodo di crollo generale cercano di aggrapparsi a qualunque salvagente. Ma ne hanno pure i lavoratori, trovandosi nell'inedita situazione di non avere più spazi per la famiglia, per gli hobby, per sé. Sopra il contraddittorio di settore, tuttavia, aleggia qualcosa di più impalpabile e di tremendamente più profondo. Aleggia la questione fondamentale dei nostri costumi e del nostro modo di essere, sempre più omologato, sempre più appiattito, sempre più vuoto. Quante volte ci siamo detti, abbastanza avviliti, che lo spettacolo della nuova famiglia rinchiusa per l'intero weekend negli outlet non è rassicurante? Non c'è bisogno di anatemi e di sante inquisizioni: lo capiamo anche da laici, lo capiamo anche da atei estremisti, che comunque qualcosa stride. Certo ci gioca forte la tentazione della nostalgia, ricordando le domeniche di cinquant'anni fa, il sabato pomeriggio con gli amici, la domenica mattina a messa, il pranzo potente con il papà a capotavola e tutti gli altri al loro posto fisso, poi di pomeriggio la partita, un po' di televisione, anche un po' di sana noia, perché no. Tornare lì, lo sappiamo, è impossibile. Cambiano i tempi, cambiamo noi. Eppure è troppo evidente che non abbiamo sostituito quella domenica con qualcosa di diverso, altrettanto solido: ce ne siamo liberati, e adesso liberi tutti di metterci in coda. Dalla domenica in famiglia alla domenica in branco: c'è l'olgettina che lancia il nuovo smart-phone, non è neanche tanto vestita, regala i gadget, facciamo un salto lì e poi mangiamo un hamburger con vista sull'aeroporto... Risultato moscio: il dinamismo dei tempi moderni, contrapposto all'andamento lento dell'antica domenica italiana, ci ha portati fuori giri. Parossismo, agenda piena, molto baccano. E soprattutto testa bassa, sempre e purtroppo testa bassa, senza chiederci un perché, senza chiederci dove stiamo andando, senza capire dove stiamo finendo. È sicuro: come dice il cardinale, riposo e tempo libero hanno un'importanza fondamentale, quanto il lavoro. Purtroppo, ormai siamo i nevrotici del tempo pieno. Lo riempiamo a dismisura, ficcandoci dentro di tutto. Il nostro e quello dei nostri figli. Ci sono madri e padri che vengono colti dal panico e dal senso di colpa se la creatura ozia anche solo per venti minuti, tra l'ora di danza e il corso di inglese. Ma il problema non è della creatura: il problema è di noi adulti, talebani dell'iperattività, sudditi della giornata frenetica, incapaci di concepire e accettare tempi morti. Abbiamo un problema enorme: non sappiamo più come utilizzarli. Siamo terrorizzati dalla pausa e dal silenzio, temiamo il momento assoluto del confronto con noi stessi. Con le nostre idee, le nostre debolezze, le nostre illusioni. All'epoca, questo strano incontro con Dio o quanto meno con io ci capitava almeno una volta la settimana, nel tempo fermo della domenica. Magari non si arrivava a conclusioni celestiali, ma un minimo di filosofia personale giocoforza ci toccava. Oggi abbiamo abolito l'appuntamento.

Saracinesche calate sul pensiero e sulla meditazione, sul piacere inestimabile di stare un po' soli, alzando la testa, per guardare in alto, dentro di noi. Aprire i negozi di domenica non mi sembra la causa di questo vuoto: ha piuttosto l'aria di un penoso e inevitabile effetto.

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