Io, sottotenente in Grecia. Da "morituro" a umiliato

Drammi, farse e commedie del nostro esercito visti dal battaglione di stanza nel paesino di Boiati. Fino all’ordine di consegnare le armi ai tedeschi

Mario Cervi in una foto del 1943
Mario Cervi in una foto del 1943

L'8 settembre 1943 mi ha colto e travolto in Grecia. E dalla Grecia - dove ho una casa, trascorro le vacanze, e piango mia moglie che se n'è andata cinque anni or sono - butto giù questi ricordi. Non ho, qui, nessuna documentazione. Mi scuso anticipatamente per qualche eventuale errore nel citare nomi e date. Ero allora sottotenente nella seconda compagnia del 479º battaglione costiero, mandato a presidiare un grazioso paese, Boiati, e un tratto di costa a una ventina di chilometri a nord di Atene.

Ero arrivato in Grecia a guerra finita da alcuni mesi, quando già s'era un po' superata la terribile carestia - dovuta soprattutto all'incapacità o all'indifferenza degli occupanti - che era stata un nuovo flagello dopo le sofferenze, i morti, i congelati - italiani e greci - dell'umiliante campagna d'Albania. Mi avevano destinato al battaglione costiero dopo vicissitudini per le quali, nonostante i miei confusi 22 anni - classe 1921, i volontari universitari «forzati» - avevo toccato con mano il marasma delle nostre forze armate. A Padova, dove avevo prestato servizio di prima nomina, il mio battaglione era stato destinato all'Africa settentrionale. Vestivamo uniformi coloniali e gli amici di un altro battaglione ci chiamavano con umorismo nero «i morituri», loro avendo invece in programma di difendere la Sardegna. Andò a finire che noi partimmo per comodi compiti d'occupazione in Grecia e loro furono mandati in Russia. Quasi nessuno tornò.

Invece noi del «479º costiero» ce la passavamo piuttosto bene, tutto sommato, con il mare e il sole d'una bella estate. Eravamo immersi, almeno molti di noi, in una passività fatalista. Sapevamo che le vicende del conflitto mondiale per l'Italia andavano a rotoli, ma ci comportavamo - e parlavamo - come se quei disastri non ci toccassero. Le comunicazioni dei comandi erano tutte formalità cartacee o eroiche resistenze o arretramenti su posizioni prestabilite. Non c'erano andartes, i partigiani greci, dalle nostre parti.

Un primo brusco risveglio l'avemmo quando si seppe che il nemico era sbarcato sul suolo della Patria. Il secondo, ancora più brusco, l'avemmo l'indomani del 25 luglio, quando si seppe che il Duce era stato sostituito dal duca di Addis Abeba maresciallo Pietro Badoglio. Il comandante della mia compagnia, capitano Bosio - anche lui di complemento, bravo e savio - mi affidò l'ingrato incarico di tenere alla truppa un discorsetto rincuorante, ed ebbi la giovanile sfrontatezza di tenerlo. Mescolai una rozza retorica ad accenti fieri, sicuramente dissi un mucchio di banali cretinate, ma insieme ai toni enfatici credo, ripensandoci, d'avere avuto accenti genuini. Non c'erano fascistoni nel battaglione costiero. Non c'erano nemmeno antifascisti. O forse qualcuno nella truppa, ma non me n'ero accorto. Ci adeguavamo al «la guerra continua» del vecchio maresciallo senza davvero crederci e senza opporci.

La folgore si abbattè su di noi l'8 settembre, con l'annuncio serale dell'armistizio. Un pensiero ci dominò da quel momento in poi. Come si poteva tornare a casa? I soldati tempestavano noi ufficiali che non eravamo in grado di dare una risposta. Prendemmo allora coscienza di quanto fosse minacciosa la presenza, a pochi chilometri di distanza, di ingenti forze tedesche, tenute raggruppate e non disseminate come le nostre. I contatti con l'alleato erano stati fino ad allora corretti senza smancerie. Tutti sapemmo che da quel momento in poi l'alleato sarebbe diventato nemico.

Dall'XI armata del generale Vecchiarelli ci arrivavano messaggi telefonici contraddittori e tremebondi. Speravamo, mentre le ore passavano, che ad Atene i comandanti prendessero qualche decisione, oltre a quella badogliana di non attaccare ma di reagire a ogni attacco, da qualsiasi parte venisse.

Finalmente la decisione, umiliante, ci fu. Consegnare ai tedeschi tutte le armi tranne le pistole degli ufficiali. Un sergente della Wehrmacht era arrivato in sidecar, scortato da una camionetta, per far rispettare l'ordine. Eravamo avviliti ma continuavamo a sperare che questo atto vile fosse la premessa di un accordo e di un ritorno. La sera del 10 settembre feci un giro a piedi tra le villette di Boiati dove molti ci conoscevano e trattavano amichevolmente.

Rammento ancora con vergogna le frasi che mi rivolse - in un italiano stentato ma comprensibile - un medico greco che avevo più volte incontrato: «Ma perché avete consegnato le armi? Siete tanti, più dei tedeschi». Non risposi nulla perché non sapevo cosa rispondere. Aveva ragione.

Con la rapidità che li caratterizzava, i tedeschi procedevano alle loro contromisure, incluse quelle propagandistiche. Bosio e tutti noi ufficiali avemmo la visita d'un ufficiale italiano a noi sconosciuto, scortato da un tedesco, che dall'uniforme aveva tolte le stellette. Ci disse che il vero esercito italiano stava risorgendo incorporato nelle forze tedesche e che, se vi ci fossimo arruolati, avremmo ancora ricevuto il nostro stipendio e mantenuto i nostri incarichi.

Nessuno accettò. Non succedeva nulla, il re e Badoglio s'erano rintanati a Brindisi, i generaloni di Atene tentennavano, noi discutevamo con rabbia della nostra sorte sapendo che non dipendeva da noi. Finché - credo fosse la mattina dell'11 settembre - un reparto tedesco piombò sui nostri sparpagliati e inermi presidi di Boiati e dintorni.

I tedeschi erano pochi e spavaldi. Notai che non avevano un atteggiamento aggressivo come altrove tragicamente avvenne, avevano l'aria di procedere a un adempimento burocratico più che a una azione di guerra. Un rastrellamento, non una minaccia di combattimento. Ci condussero in uno spiazzo e di lì ci avviarono verso una meta da loro stabilita. La seconda compagnia del 479º battaglione costiero si avviò così in lunga fila verso la prigionia, sorvegliata da pochissimi uomini. Accanto a me avevo il tenente medico Sordelli. Costeggiavamo la tenuta dell'ingegnere italiano Troy che conoscevamo bene. A una curva del percorso io e Sordelli sgattaiolammo verso un folto di alberi, nessuno ci vide. Da allora per qualche giorno l'ingegnere generosamente ci ospitò, poi fummo affidati ad amici o conoscenti suoi. Una vita misera ed errabonda, non avevo più l'uniforme, non avevo più la pistola. Il mio amico medico, catturato dai tedeschi, finì in Germania e vi morì. Io di casa in casa trovai finalmente rifugio presso una famiglia di bravissima gente. Di una delle ragazze di famiglia m'innamorai. È stata mia moglie per 63 anni.

Nel 1953 un giornalista, Renzo Renzi, pubblicò sulla rivista Cinema nuovo un articolo intitolato «L'armata s'agapò» (s'agapò in greco moderno significa «ti amo») dedicato al dissolvimento delle forze italiane d'occupazione, con un intrecciarsi acre di tragedie e di commedie collettive e individuali. Renzi e il direttore di Cinema nuovo Guido Aristarco furono brevemente arrestati e, come ex militari, processati per vilipendio delle forze armate. La condanna fu di otto mesi di reclusione per Renzi, quattro e mezzo per Aristarco. Seguii il processo come cronista del Corriere della Sera, e l'ufficiale che presiedeva il Tribunale militare mi chiese un giorno perché mai, lavorando in un grande quotidiano borghese, parteggiassi nei miei resoconti per gli imputati. Gli spiegai che parteggiavo perché, sia pure con sgradevole acredine e accanimento ideologico, «L'armata s'agapò» aveva raccontato amare e avvilenti verità.

Ci furono aspetti miserevoli in quella tragedia. Ma vi furono anche emozioni e passioni sincere.

In questa mia estrema vecchiezza fatta di ricordi, di rimpianti, di rimorsi, non rinnego nulla, mi rassegno a tutto, perché tutto appartiene alla vita.

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