Napolitano ci porti alle urne

Il problema del Colle è uno solo: guidare il sistema a una rilegittimazione elettorale. Prima è meglio è

Napolitano ci porti alle urne

Napolitano sostituisce al principio di realtà la pratica di una stentata sopravvivenza, e i suoi più improvvisati portavoce la chiamano «stabilità». Il principio di realtà era il sostrato della responsabilità che il Quirinale, dopo la rielezione per un secondo mandato, sorprendente e del tutto inusuale, si assumeva: stipulate un governo di compromesso tra forze diverse, una larga coalizione il cui programma è fare riforme significative in un torno di tempo accettabile, nel segno di un interesse del Paese che supera gli aspetti faziosi del conflitto tra berlusconiani e antiberlusconiani. Non piace la definizione di «strategia di pacificazione»? Trovate un'altra formula, ma vedrete che il risultato, il significato, non cambia. Con l'uscita dal gioco di Berlusconi, e nelle condizioni peggiori possibili, tutto cambia. È come se Berlinguer nei fatali anni Settanta avesse perso il contraente storico delle larghe intese, un Aldo Moro, e si fosse rassegnato a garantire la stabilità italiana con un gruppetto di democristiani, numericamente appena sufficiente a una maggioranza risicata, guidato da un Flaminio Piccoli o anche meno. Chi fa scelte minimali, senza respiro politico, si consegna all'irrilevanza. È evidente che ci sono due governi presieduti da Enrico Letta, uno che si presentò alcuni mesi fa alle Camere con la speranza di chiudere una lunga stagione di risse, e di impegnarsi per cose importanti e attese da lungo tempo. Questo era il progetto varato dal capo dello Stato, che promise di denunciare apertamente la ripresa del vecchio gioco conflittuale cieco, assumendosi la responsabilità della denuncia davanti agli italiani. E un altro è quel governo Letta che si presenterà questa settimana in Parlamento: una piccola coalizione dalla quale sono effettivamente o virtualmente fuori il principale contraente del vecchio patto, Berlusconi, il più radicale oppositore, Grillo, e perfino un pezzo decisivo del Partito democratico, che affida strategicamente a Matteo Renzi il compito di difendere il bipolarismo e di rilanciarlo sulla base di una rilegittimazione elettorale diretta. Un esecutivo di miniribaltone si accinge a chiedere la fiducia alle Camere.

Io non credo che Napolitano faccia parte della congiura dei poteri neutri e di garanzia che ha messo all'angolo il leader del centrodestra. Ne ho parlato spesso, con i miei argomenti, ai lettori di questo giornale, che in materia sono più che diffidenti. Ma capisco il sospetto affacciato da Berlusconi nella sua lettera ai deputati e senatori di Forza Italia, ne comprendo la radice psicologica e politica. E sono contrario alla tentazione forzata di partecipare al gioco grillino dell'impeachment, che si fa largo nella nuova opposizione berlusconiana, ma penso che una deriva astiosa, fatta di incomprensione e inimicizia politica, è destinata a stravolgere le basi di consenso che hanno portato al secondo mandato del presidente. Dunque cerco di metterlo in guardia con tono cortese ma senza impacci e ipocrisie. Egli sa, perché era sufficientemente chiara la nota del Quirinale all'indomani della sentenza Esposito di condanna definitiva di Berlusconi, che non è possibile la semplice registrazione del giudicato come questione personale e privata del «leader tuttora incontrastato» di milioni di elettori. Luciano Violante, già presidente della Camera, ha cercato di evitare la rotta rovinosa a cui ha portato l'inerzia demagogica di un Pd in balía degli eventi e dei tromboni dell'antiberlusconismo: aveva proposto di rispettare il diritto di Berlusconi di difendersi politicamente dalla pretesa faziosa di cacciarlo dal Senato senza tanti complimenti, scegliendo una via razionale e tempi acconci a una decisione di quella portata. È stato preso a schiaffi e a gavettoni. Chiunque osservi e conosca la politica sa che quella di Violante era anche la preoccupazione del Quirinale, in termini istituzionali e politici, e in termini di civiltà del diritto e della sua interpretazione indipendente da parte delle assemblee elettive. Si è scelta la via breve e rancida della sottomissione piena e incontrollata alle pulsioni della magistratura militante, ratificate dalla corporazione cassazionista nei modi e con lo stile Esposito che sappiamo. Ora Napolitano non può eludere il problema delle conseguenze politiche della circostanza che si è verificata sotto gli occhi sbigottiti di milioni di persone, che ha tolto ipso facto al governo il grado minimo di fiducia di cui teoricamente godeva. Un governo di infima coalizione, con i transfughi ministerialisti del partito di Berlusconi, senza una base programmatica seria, in lite con l'Europa perfino sul risanamento dei conti, è cosa profondamente diversa dall'idea originaria.

Può ottenere una convalida aritmetica, ingannare per qualche mese l'Italia sulla legge elettorale con procedure da vecchia nomenclatura o da notabilato post-democristiano, ma è sottoposto al martellamento di forze contrarie, non escluso dal novero il nuovo segretario del Pd, che rischiano di fare poltiglia delle aspirazioni alla piccola e cimiteriale stabilità di un piccolo establishment di cui Napolitano non dovrebbe aspirare a far parte. Il problema del presidente della Repubblica è dunque uno solo: guidare il sistema a una rilegittimazione elettorale. Prima è meglio è. Per l'Italia e per lui.

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