La fine di Berlusconi è un tema ricorrente della politologia italiana almeno a partire dal giorno in cui annunciò la discesa in campo. L'indomani, infatti, molti commentatori e tutti i leader del centrosinistra si dissero certi che il Cavaliere si sarebbe schiantato alle urne. Vinse le elezioni ma in pochi mesi, fra avvisi di garanzia e ribaltoni leghisti, finì all'opposizione: e di nuovo tutti a scommettere sulla sua fine. È andata così fino a ieri pomeriggio, e la statistica suggerisce che continuerà così per un altro bel pezzo.
Bisognerebbe invece chiedersi se non siamo alla fine del Pd. Il partito che D'Alema un giorno definì con sarcasmo un «amalgama mal riuscito» è oggi qualcosa di molto diverso, e molto peggiore: un campo di battaglia permanente, dove almeno tre grandi eserciti e una miriade di capitani di ventura intrecciano alleanze, muovono guerra, ordiscono tradimenti, firmano tregue precarie e subito ricominciano a combattere. La posta in palio è, naturalmente, la leadership: ma lo scontro è talmente profondo e radicale - perché in gioco c'è la sopravvivenza di un'intera generazione e di una cultura politica che ha segnato il Novecento italiano - da far temere che il risultato finale non possa che essere un'esplosione. La condanna di Berlusconi in Cassazione è destinata ad accelerare questo processo e non per caso ha già innescato una violenta polemica interna. Ugo Sposetti, un veterano che conosce bene il suo partito, nei giorni scorsi ha profetizzato l'apocalisse: «Il partito non reggerà l'urto e salterà in aria come un birillo - ha detto - Siamo politicamente annientati, nessuno ha ragionato di questa vicenda sul piano politico: per noi sarà una botta tremenda e il partito imploderà». Il motivo, del resto, è semplice: non soltanto il Pd, ma l'intera sinistra della Seconda Repubblica si è fondata e radicata su un unico, imprescindibile principio condiviso: l'antiberlusconismo. E in nome di questo principio ha sempre accettato passivamente le scelte della magistratura. Come si può dunque restare al governo con un «delinquente» (come ha elegantemente titolato ieri il Fatto), e magari persino metter mano con lui alla riforma della giustizia, come suggerisce Napolitano?
I tre eserciti che si muovono nel Pd si sfideranno proprio su questo terreno. Il primo, guidato da Enrico Letta, ha Napolitano come presidente onorario e, com'è ovvio, farà di tutto per difendere il governo. Ma potrebbe provare a fare qualcosa di più: costruire intorno al governo una specie di super-Scelta civica che raccolga, insieme ai montiani, i cosiddetti «moderati» del Pd e del Pdl. Contro questo disegno si muove il secondo esercito, quello di Renzi, che tuttavia ha anch'esso ambizioni che travalicano il recinto stretto del Pd, sempre più considerato dal sindaco di Firenze una bad company di cui liberarsi al più presto. Renzi, che ha già cercato l'affondo con il caso Alfano, proverà ancora a lavorare per le elezioni anticipate, e lo farà - per un curioso paradosso della cronaca - sfruttando proprio il cavallo di battaglia dei suoi avversari interni, l'antiberlusconismo.
Il terzo esercito, un po' raccogliticcio e guidato pro tempore da Epifani, è incerto sul da farsi. Rappresenta la tradizione e la continuità di una cultura politica e di un gruppo dirigente, è diviso al proprio interno ma compatto nel seguire l'istinto di sopravvivenza, vede in Renzi il nuovo Craxi (se non il nuovo Berlusconi) e dunque difende il governo, ma teme il disegno di Letta e non ha rinunciato al progetto di una «cosa rossa», magari guidata da Barca, che annetta Vendola e faccia concorrenza a Grillo. È interessante notare come tutti e tre gli eserciti, in un modo o nell'altro, abbiano un orizzonte che oltrepassa il Pd attuale. Fra gli accampamenti dei generali si muovono poi vecchi e nuovi capitani di ventura: suggeriscono alleanze, tessono intrighi, promuovono mediazioni.
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