È arrivato il momento delle scelte decisive: o i piccoli passi, come vorrebbero il presidente del Consiglio, Enrico Letta, e il suo ministro dell'Economia e delle finanze, Fabrizio Saccomanni, o la manovra choc come vorrebbe il Pdl. Da questa scelta dipende il futuro dell'Italia.
Piccoli passi vuol dire rinvii della riforma dell'Iva, rinvii della riforma della tassazione sugli immobili, piccole correzioni nel mercato del lavoro, nessuna aggressione strutturale al debito pubblico, nessuna aggressione strutturale alla spesa pubblica corrente, nessuna riforma fiscale né sostanziale liberalizzazione/privatizzazione.
Manovra choc, invece, vuol dire concentrazione nel secondo semestre 2013 dei pagamenti dei debiti delle Pubbliche amministrazioni per 50 miliardi di euro, più altrettanti nel primo semestre del 2014. Manovra choc vuol dire straordinaria deregolazione in entrata del mercato del lavoro per i prossimi 3 anni, fino a Expo 2015; manovra choc vuol dire riforma fiscale; manovra choc vuol dire attacco al debito; manovra choc vuol dire riforma strutturale dell'Iva e del sistema di tassazione degli immobili. Il tutto con una particolarità: concentrato tra seconda metà del 2013 e prima metà del 2014, vale a dire in una finestra temporale decisiva per farci agganciare la ripresa internazionale e per arrivare con questa credibilità al semestre di presidenza italiana della Ue del prossimo luglio.
Dall'analisi che segue vedremo emergere un paradosso: che la soluzione choc ha un modello: la Germania di Schroeder dei primi anni 2000. Era solo un anno fa e ancora ci impiccavamo tutti all'andamento degli spread. Venerdì il differenziale Btp-Bund ha toccato quota 303 (per poi chiudere a 293 punti base), ma in pochi si sono allarmati. Così come troppo poco rilievo è stato dato al declassamento del rating del nostro paese da parte di Standard&Poor's (martedì pomeriggio a mercati aperti e non, come si usa, di venerdì sera), o all'ultimo terribile rapporto di Mediobanca, che vede l'Italia sull'orlo del default nel giro di pochi mesi. Né si presta la dovuta attenzione al cambio euro/dollaro. Nonché della diversità di politica monetaria adottata dalle banche centrali dei due continenti.
Partiamo dall'Italia. Si può finalmente cominciare a sperare? Non più di 10 giorni fa lo spread Btp-Bund era sceso sotto i 280 punti base e nello stesso periodo lo spread tra i Bund tedeschi e i Bonos spagnoli era passato da 327 a 299 punti. Solo sei mesi fa la differenza tra lo spread dei Bonos e quello dei Btp italiani rispetto ai titoli decennali tedeschi era a nostro favore per circa 100 punti base. Ora quelle differenze si sono quasi annullate. Il rischio Italia è cresciuto e quello inerente la Spagna diminuito? Ipotesi plausibile. La Spagna, infatti, ha messo in moto qualcosa nel cuore dell'economia mentre, in Italia, purtroppo si resta ancorati alla politica dei piccoli passi. Nella ricerca di un «margine», su cui intervenire, che è sempre più difficile trovare: per il semplice fatto che non esiste.
La verità è che Spagna e Francia, ottenendo una proroga di due anni di deroga dai rigidi parametri del Patto di stabilità, hanno «comprato» quel tempo necessario per far avanzare riforme strutturali che stanno rimettendo in modo l'economia. I mercati hanno permesso loro di firmare una cambiale a scadenza. Se quel tempo non sarà usato per risanare i conti la cambiale andrà in protesto. E quegli stessi Paesi dovranno rimborsare il prestito ottenuto gravato da ingenti interessi.
Indubbi sacrifici da un lato, ma anche benefici. Spagna e Francia potranno usufruire di altri due anni di zona franca. L'Italia rischia così di subire un doppio svantaggio. I suoi «compiti a casa» hanno reso poco, al di là del loro significato simbolico. La obbligheranno ad una cura ben più draconiana.
Nella sua recente audizione in Parlamento, il ministro Saccomanni ha sostenuto che progressi nel contenimento della spesa, da qui a fine anno, sono assolutamente poco realistici. Ed allora? I persuasori occulti si sono già messi all'opera, con un fuoco di sbarramento. L'Iva? Il temuto aumento non può essere scongiurato. Imu sulla prima casa? Va mantenuta. E se non bastano le argomentazioni dei maitres à penser italiani, ecco che arriva sollecito l'intervento del Fondo monetario internazionale. Che non si occupa della foresta, vale a dire gli equilibri di fondo della nostra economia, bensì di un albero sparuto (l'Imu) che vale meno dello 0,3 % del Pil italiano.
Nel frattempo si stringe ulteriormente il cappio sull'economia, trascurando di considerare che quel che si ottiene, in termini di risorse, lo si paga cento volte in più sul fronte dello sviluppo economico complessivo.
E qui subentra il modello tedesco: nel 2003 Schroeder impose all'economia tedesca una robusta cura riformatrice. Modificò le pratiche del mercato del lavoro, al punto che ancora oggi più di 7 milioni di lavoratori vivono di mini-job: una salario part-time che non supera i 500 euro al mese. Altro che precari italiani. Trasformò le vecchie strutture del welfare per ridurre le sacche di semplice assistenzialismo. Con l'aiuto dei sindacati attirò gli investimenti esteri, facendo divenire, dopo una breve recessione, un'economia che, da tempo, batteva la fiacca una potente macchina da guerra. Lo fece approntando i necessari ammortizzatori sociali, anche a costo di non poter rispettare i vincoli del 3 per cento nella politica di bilancio. E fino a definire «stupidi» i parametri di Maastricht.
La Commissione europea fece la faccia feroce, ma incassò di buon grado senza ricorrere ad effettive reprimende. Merito anche del sostegno offerto dall'Italia alla decisione di non procedere altrimenti. Il Governo Berlusconi, che si era da poco insediato, fu naturalmente accusato, dalla stampa militante italiana, di connivenza. Si stava solo cercando un alibi per evitare di incorrere negli stessi inconvenienti. Come nella Germania di allora, nell'Italia di oggi servono ammortizzatori specifici se si vuol ridurre il perimetro dello Stato, accrescere la competitività, legare i salari alla produttività e via dicendo. E se la Germania avesse un pizzico di riconoscenza dovrebbe plaudire a quest'iniziativa.
Per questo, al di là delle polemiche, ogni giorno ci poniamo questo interrogativo: qual è il contributo del Pdl ad un governo di cui fa parte, ma di cui non controlla i dicasteri chiave ai fini della ripresa economica? Soprattutto insistiamo sulla coerenza e sulla necessità di una serie di misure, tra loro coordinate, per potenziarne l'impatto sull'intera economia. Per questo abbiamo insistito sull'accelerazione delle procedure per i pagamenti dei debiti delle Pubbliche amministrazioni e sulla necessità di ampliare l'intervento previsto, passando da 30 a 50 miliardi nel 2013 e intervenendo ulteriormente con altri 50 miliardi nel primo semestre del 2014, con un sistema di cessione dei crediti dalle imprese alle banche e garanzia dello Stato. E abbiamo insistito con il governo per riprendere in mano il dossier di attacco al debito pubblico, già proposto un anno fa, che può portarci a ridurre, nell'arco di 5 anni, lo stock del debito di 400 miliardi, riportandolo sotto il 100% rispetto al Pil, e a dimezzare, sempre in 5 anni, il servizio del debito.
Tutto questo serve. Perché vuol dire più mercato, più capitalismo, nuovi investimenti, più occupazione, più produttività, più competitività, più crescita, minore pressione fiscale, emersione del sommerso, più responsabilità, più credibilità.
Non è più tempo di lavorare «a margine», correggendo norme o piccoli passaggi di leggi obsolete. La politica dei piccoli passi non ci porta da nessuna parte. Se non nel baratro. Persino l'Europa ne è consapevole, fino magari ad accettare, anche se non lo dirà mai, il non rispetto del Patto di stabilità.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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