Che fine ha fatto il tesoretto della Dc, defunta ma non troppo? Il Giornale da qualche anno si è occupato delle sorti del mai disciolto partito e di quella sentenza, la 25999 del 2010 della Suprema corte di Cassazione, che ha resuscitato la Dc facendo carta straccia della famosa delibera del 1994 che l'aveva «trasformata» in Partito popolare italiano con la regia di Mino Martinazzoli. La naturale conseguenza di questo maquillage politico elettorale fu che il Ppi e i vari partiti satellite della Dc come il Centro cristiano democratico fondato da Pier Ferdinando Casini si sono divisi una torta da svariati miliardi tra beni immobili e - soprattutto - rimborsi elettorali. C'è chi sostiene che siano trenta miliardi di vecchie lire, chi dice che siano molto di più: almeno 80 miliardi, cioè 40 milioni di euro e spiccioli. Si parla, ad esempio, dell'accordo firmato da Rocco Buttiglione e Gerardo Bianco il 14 luglio 1995 nel quale i due si spartiscono simbolo, impiegati e uffici di Piazza del Gesù, patrimonio e persino la testata La Discussione assieme ai due tesorieri dell'epoca, Pierluigi Castellani e Alessandro Duce.
Al di là della querelle sul simbolo, il cui valore elettorale oscillerebbe ancora intorno al 2% (tanto che Lorenzo Cesa ha insistito per metterlo nel logo Ncd-Udc alle Europee) parliamo di una montagna di soldi pubblici transitati nel Ppi come da bilancio-rendiconto del partito nel 1994 e poi finiti in mille rivoli in vari filoni tra Margherita (poi confluita nel Pd), Ccd e Cdu fino a Democrazia europea da cui poi è nata l'Udc che conosciamo oggi e alla Dc di Gianfranco Rotondi. Una serie di scatole cinesi e di contenitori svuotati e riempiti - non solo politicamente - ma senza titolo di cui adesso bisognerà ricostruire ogni passaggio. Perché, come ha stabilito la sentenza della Cassazione, l'unico soggetto deputato a sciogliere la Dc era il Consiglio nazionale, i cui componenti superstiti oggi reclamano soldi e simbolo, minacciando azioni legali che porterebbero a conseguenze inimmaginabili, visto che finirebbero alla sbarra tutti i leader dei partiti eredi «illegittimi» della Dc.
A ricostruire tutto il risiko sarà il Parlamento, come si legge in un documento riservato di cui il Giornale è entrato in possesso e che verrà mostrato nella trasmissione Report questa sera su Raitre: «Si rende necessaria anche da parte del Parlamento italiano - scrivono gli avvocati milanesi Giuseppe Giannì e Paolo Pizzocri, legali dei consiglieri nazionali della Dc - un'opera di ricostruzione storica dei bilanci, accompagnata da un'attività di ricognizione sui partiti che sono stati beneficiari del trasferimento di beni della Dc», eccetera eccetera, con l'effetto di accertare «i profili di illegittimità nella vicenda e le eventuali responsabilità». Insomma, toccherà a Pietro Grasso e Laura Boldrini verificare che fine abbiano fatto i soldi del finanziamento pubblico, erogati dallo Stato tramite gli uffici di Camera e Senato.
Ma non tutti gli eredi legittimi della Dc vanno d'amore e d'accordo. Due anni fa, al primo Consiglio nazionale Dc riconvocato dal 1989 si presentarono solo 35 reduci, tra cui Giuseppe Gargani, Ettore Bonalberti (noto per la sua rivalità con Tony Bisaglia, padrino di Casini e di Marco Follini), Gianni Fontana, Silvio Lega e Clelio Darida ma non Rosa Russo Iervolino, che del Consiglio nazionale era presidente.
Un numero insufficiente per decidere alcunché tanto che in quella riunione volarono parole grosse (su YouTube c'è anche un gustoso siparietto) tra Bonalberti e Gianni Potenza, che contestava la legittimità dell'adunanza. La resurrezione della Dc sembra un copione da B-movie ma può riscrivere la storia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.